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Il 2011 è stato un anno chiave nell’equilibrio dei rapporti tra libri e e-book: a febbraio, per la prima volta, gli ebook sono diventati la categoria di libri più venduta nel mercato americano superando i tascabili. Secondo la Association of American Publishers questo sorpasso è avvenuto non a caso dopo le feste, che sono sempre un’ottima occasione per introdurre nuove tecnologie e nuove abitudini di consumo grazie ai regali di Natale. Il fenomeno inoltre non riguarda solo il mercato americano: anche in UK Quercus, la casa editrice della trilogia di Larsson, ha dichiarato di attendere il 10% degli incassi nel 2011 proprio dagli ebook.
Dobbiamo quindi prepararci ad assistere al lento ma inesorabile declino dell’oggetto libro? Personalmente credo che i libri, vedendo arrivare una nuova specie nel loro regno, impareranno ad evolversi adattandosi ai mutamenti circostanti: il darwinismo non vale solo per il regno animale e vegetale, ma anche per i media. Proprio un esempio di Darwin, ovvero l’evoluzione nel tempo dei cervi maschi finalizzata alla seduzione, può aiutarci a capire un’attuale tendenza del marketing editoriale.
Come infatti i cervi maschi per aumentare l’attrattiva esercitata sulle femmine hanno dovuto sviluppare dei palchi (corna) tanto ingombanti da sembrare quasi in contrasto con la sopravvivenza individuale, così la seduzione del vecchio libro verso il suo nuovo lettore sembra affidarsi al potenziamento di un ornamento che l’ebook non può eguagliare: la copertina.
Un interessante articolo del Guardian evidenzia che quest’anno, per la prima volta, il vincitore del Booker Prize ha ringraziato la “book designer” per avere trasformato la sua storia in un bell’oggetto. Sembra che questo gesto di Julian Barnes, mettendo il book designer allo stesso livello di un editore e di un agente, abbia simbolicamente sdoganato la legittimità di giudicare un libro dalla e per la sua copertina. La tendenza sarebbe quella di prestare almeno la stessa attenzione alla forma che al contenuto? Pare di sì a giudicare dagli scaffali delle librerie anglosassoni, dove nell’ultimo anno si sono viste incisioni su legno e lino da parte della Faber per i classici della poesia, fascette dorate attorno alla nuova biografia su Dickens che rendono il libro già pronto per in Natale mentre è ancora sugli scaffali, fino ai notevoli risguardi della Persephone Books in tessuto o cotone a seconda del materiale che meglio si adatta al tema del libro; inoltre la copertina diviene sempre più un modo per suggestionare il futuro lettore sul tipo di libro che andrà a leggere, come nel caso dell’edizione inglese di 1Q84 in cui non si capisce bene se siano una o due persone quelle che ci stanno guardando.

Insomma, se il contenuto libro sta diventando ormai intercambiabile tra la versione cartacea e quella digitale, allora diventa ancora più importante l’oggetto libro.
Non è mia intenzione catalogare ed esaurire le differenze principali tra i due formati, ma dopo avere tenuto in mano e ammirato un Kindle, mi sono resto conto di alcuni suoi limiti, che sono poi possibilità di darwiniana sopravvivenza per i libri:
la mancanza di fisicità → l’odore → il tatto sulle pagine → il colpo d’occhio di quanto ho letto → il colpo d’occhio di quanto mi manca → la possibilità di archiviarlo nella mia libreria → il senso generale di quanto ho letto finora → avere il piacere di mostrare agli altri che l’ho letto, che ce l’ho → fare nascere conversazioni per il fatto che è un oggetto presente tra noi → avere un’idea delle persone a partire da quello che leggono e quello che espongono → sbirciare per pura curiosità quello che leggono gli estranei sui mezzi di trasporto → la copertina
Quindi avremo copertine così belle e materiali così gratificanti da rendere il libro digitale inutile o secondario?
Certamente no: pare infatti che come la copertina per la sua stessa presenza possa essere un asso nella manica del libro tradizionale, così per la sua stessa assenza possa fare la fortuna di particolari generi letterari: in primis il romanzo rosa.
Rouge Romance, una collana di libri che si definisce “sexier, longier and 100% more romantic” vende più di una copia su dieci in formato digitale e il trend sta crescendo. Random House, la collana che li pubblica, ha infatti scoperto che i lettori di romanzi rosa sono stati tra i primi a passare agli e-book, tanto che addirittura un lettore su sette ne ha letto almeno uno durante l’anno. Mills & Boon, un’altra casa editrice specializzata in questo genere, pubblica circa cento e-book al mese, più di quanto faccia con la stampa tradizionale, e registra tra i maggiori successi di vendite di tutto il mercato.
Perché? Perché gli e-book risparmiano a questi lettori la seccatura di dovere nascondere la copertina (che, diciamolo, nella maggior parte dei casi sono immagini imbarazzanti di donne con la permanente avvinghiate a uomini villosi in scenari improbabili) quando sulla metro si incontrano persone come me che hanno il vizio di sbirciare e di potersi godere il proprio romanzo nel più completo anonimato.
Certo, questo non è sicuramente l’unico motivo che porta al successo del formato digitale, ma come dice il direttore di Mills & Boon “ebooks are an especially good fit for erotic romance because women (and men) can buy them in the privacy of their own homes. Now, with ebook readers, our readers also can read their books in public without anyone knowing what they are reading”.
Una rapida ricerca su google immagini ci regala queste notevoli copertine della Mills&Boon, che avremo la fortuna di sbirciare sempre meno in futuro:

Insomma, probabilmente siamo molto orgogliosi di mostrare in giro che stiamo leggendo il vincitore dell’ultimo premio letterario e preferiamo regalare una copia accattivante se vogliamo fare colpo su qualcuno, ma abbiamo voglia di leggere anche libri meno prestigiosi, magari da scambiare di nascosto con chi condivide la stessa passione. Ed è proprio in questo confine tra l’esibizione e l’imbarazzo che il libro cartaceo e quello digitale trovano un terreno di convivenza e perfezionano la lezione dei cervi: per sedurre si ornano di palchi robusti e imponenti (size matters), ma poi sono capaci di toglierseli quando preferiscono non dare nell’occhio e godersela in santa pace.
Alcuni giochi non passeranno mai di moda.
Poi certo ognuno ha le sue passioni private e personali e deve imparare a conviverci. Per esempio a me piacerebbe tantissimo partecipare a un invito a cena con delitto. L’ideale sarebbe una dimora della Cornovaglia, vecchia e con molte stanze, mentre fuori piove. So che esistono “giochi” del genere, anche in Italia, ma temo che non siano all’altezza del mio sogno: mi ricordo ancora una puntata di Fantasilandia in cui la fantasia di una ospite era realizzata con tanto di temporali e attentato alla sua vita, ed ecco, per accontentarmi ci vuole l’organizzazione del nano e del brizzolato.
Più comunemente, la caccia al tesoro è un gioco che ormai fa parte del nostro immaginario e stimola da sempre il senso di avventura di diverse generazioni: c’è la caccia e c’è il tesoro, e tanto basta.
Recentemente ho letto di due iniziative, una editoriale e l’altra pubblicitaria, che utilizzano la caccia al tesoro come stimolo di esplorazione dello spazio.
Il primo viene da una nuova tipologia di guide turistiche e ludiche, le Whai Whai. Le ho scoperte su segnalazione di una ragazza canadese che studia a Venezia: si sa che spesso gli stranieri sono in grado di notare elementi dello spazio che ci circonda che a noi sfuggono, per abitudine. Le Whai Whai (parola che in maori significa “cercare”) sono un modo per girare una città e conoscerla meglio attraverso una caccia al tesoro via cellulare, risolvendo enigmi che trovano una risposta proprio nelle strade della città, nei suoi monumenti, nelle sue tracce storiche.
Come si gioca: prima di tutto occorre acquistare la guida (quella che ho io è stata presa alla Feltrinelli), dove è contenuta una chiave numerica che bisogna comunicare via sms per dare il via all’avventura.
Si possono scegliere diverse modalità di gioco: quanto deve durare (da 2 a 9 ore), con quale difficoltà (da semplice a avanzato), da che zona deve iniziare (indicando il punto cardinale in cui ci si trova), con che tipo di sfida cimentarsi (da soli o in squadra).
Il libro su Roma invita a scoprire la città partendo da una misteriosa lettera scritta da Benvenuto Cellini, personaggio adatto ai misteri se ce ne è uno. In questa lettera autografa si parla del Ruyi, uno scettro cinese che conferisce poteri a chi lo possiede, e che nei secoli sarebbe arrivato a Roma, dove ora è nascosto. Si tratta quindi di una ricerca per le vie della capitale di questo magico scettro che credo costituisca il trait d’union tra le varie città in cui è disponibile la guida: Venezia, Firenze, Verona. Come vedete dalle foto qui sotto, ogni pagina del libro è costituita da “blocchi” separati che non sono comprensibili se letti in modo sequenziale (elemento che mi ricorda i miei amati librigame).

Se volete leggere un’esperienza di gioco completa, Giovy ha pubblicato un bel resoconto della sua partita a Venezia.
Il secondo caso, come dicevo, è invece una caccia al tesoro “pubblicitaria”, basata su Foursquare.
Si è già parlato molto su Foursquare e sul fatto che proprio le sue dinamiche di gioco possano portarlo a imporsi tra i servizi di “geo social network“: potete leggere qui un post di Vincos, e qui uno di Mashable.
Jimmy Choo, brand di scarpe che personalmente ho conosciuto con Sex&thecity, ha pensato di utilizzare il proprio account su Foursquare e su Twitter per organizzare a Londra quella che hanno chiamato “CatchaChoo”.
Il brand infatti fa check-in in vari luoghi della città in cui viene abbandonato un paio di trainers, pubblicandone anche la foto su Twitpic. Chiunque riesca a trovarle mentre il check-in è ancora attivo, vince le scarpe. Divertente, semplice e con un premio interessante (credo).
Ovviamente le scarpe di Jimmy Choo frequentano solo location esclusive, aumentandovi tra l’altro il traffico di persone, e aprendo quindi nuovi spazi per partnership tra locali/retail e brand.

Cercando un po’ in rete, emerge che una dinamica simile era stata utilizzata anche da Levi’s in Australia, come potete vedere in questo video.
Qualcuno di voi conosce altre cacce al tesoro fisiche o digitali?
Ultime note: se volete leggere un bel post che parla di localizzazione e non solo, vi consiglio quello de Lafra dedicato al What, Who and Where.
Le foto alla guida Whai Whai sono una gentile concessione di Ishmael78.
Il ruolo che occupa il gioco nella vita dell’uomo è un tema su cui non si riflette abbastanza. In realtà avere una risposta a questo interrogativo permette di sgombrare il campo da tante inesattezze e pregiudizi che spesso si leggono quando si va a parlare di giochi (che siano “video-” o no).
Per questo ho trovato molto interessante il libro “Oasi del gioco“, scritto da un filosofo tedesco, Eugen Fink, nel 1957.
Prima di tutto Fink ci invita a riflettere sui momenti chiave dell’esistenza di ognuno: “l’uomo è essenzialmente un mortale, un lavoratore, un lottatore, un amante e un giocatore“. La nostra esistenza è infatti determinata dalla consapevolezza di dovere morire (toccate ferro, se volete), ed il gioco è uno degli ambiti base attraverso cui l’uomo vive e si contrappone al suo destino: “il carattere del gioco è l’azione spontanea, il fare attivo, l’impulso vitale: il gioco è l’esistenza che si muove da sé“.
Eppure c’è un tratto fondamentale che differenzia il gioco dagli altri impulsi vitali. L’uomo vive sempre anticipando il futuro, intendendo il presente come una preparazione di ciò che sarà, un passaggio in un cammino di cui si guarda sempre la destinazione, per capire il senso della nostra permanenza nel mondo. Il gioco si distingue perché è l’unica attività fondamentale a cui manca questa caratteristica di “futurismo”: noi non giochiamo in vista di uno scopo finale futuro, non ci proiettiamo nel tempo a venire, ma lo facciamo per godere di un’oasi di presente, con un senso tutto suo e autonomo rispetto al resto delle attività. “Il gioco ci rapisce“.
Questo passo è fondamentale per capire che contrariamente a quanto si pensa spesso sul gioco, e ancora di più sul videogioco, questo non è affatto privo di senso: l’errore nasce dal fatto che tutte le attività umane sono rivolte allo scopo finale, mentre “l’azione del gioco ha scopi interni a sé, che non rimandano ad altro. […] Proprio il senso conchiuso e circolare del gioco fa emergere una possibilità di soggiornare dell’uomo nel tempo, un istante, un lampo di eternità“. In sintesi, il gioco regala il presente e questo dovrebbe fare capire quanto sia insensato organizzare gruppi per buttare i giochi nei cestini: forse queste persone dovrebbero curarsi l’ansia del futuro 
L’invito di Finck è di non contrapporre il gioco al lavoro, all’amore, addirittura alla realtà, perché questo sgnificherebbe non capirlo: è un’attività fondamentale dell’esistenza, e proprio il fatto di non essere direzionato verso il futuro gli permette di rappresentare tutte le altre attività: possiamo giocare con il lavoro, con l’amore, con la morte, e, forse in modo ancora più sorprendente, possiamo giocare con il gioco.
“Il mondo del gioco è una sfera che affascina, seduce, libera dai vincoli e temporaneamente ci trasforma. Anche se poi abitualmente nelle attività serie si fa resistenza al comportamento giocoso, e spesso viene ignorato il giocare con il lavoro, così come viene ignorato molto dell’elemento giocoso che si sviluppa nella vita cosiddetta seria della professione (ma anche della relazione tra sessi). E si ignora che i giochi dell’uomo preferiscono come loro contenuto tematico proprio le grandi storie tragico destinali, si ignora che noi giochiamo con la strenua fatica del lavoro, con il furore esaltato della lotta, con il trauma di Elettra, con lo sposalizio dei giovani amanti, e a volte perfino giochiamo con la mancanza di serietà del gioco stesso, la ripetiamo, giocando la mettiamo in scena“.
Ho pubblicato lo stesso post anche qui.