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Sono diventato uno che si fida così tanto di internet da pagare più di 100€ senza sapere cosa acquisto, affidandomi solo al giudizio degli sconosciuti. E non è stata la follia estemporanea di un viaggiatore annoiato! Sono pure recidivo: l’ho fatto di nuovo e poi ancora una volta.
Ho pagato la stanza in un albergo di cui non sapevo nemmeno il nome tramite Hotwire e il sito ha svelato l’anonimato solo dopo la transazione: è stato come ricevere un pacco regalo a sorpresa che però ho comprato io.
COS’E’ E COME FUNZIONA
Hotwire è un sito di prenotazione di camere di albergo invendute – ma anche voli aerei, auto a noleggio e vacanza intere – che vengono mostrate in forma anonima, classificate per prezzo, stelle o raccomandazioni. Selezionando la città in cui il servizio è disponibile e le date di arrivo e partenza si accede a una tipica schermata di risultati, ma senza il nome degli hotel, tutto anonimo. Si vede il costo, lo sconto rispetto al prezzo pieno, i servizi che offre l’hotel, la media delle recensioni che vengono dal sito e soprattutto la sintesi dei giudizi su Tripadvisor: es. una media di 4 con oltre 500 recensioni.
L’integrazione con Tripadvisor è molto intelligente perché fa sembrare l’albergo più “reale” e rende la scelta più rassicurante: in fondo se ha oltre 200 recensioni non può essere una scatola con un mattone dentro… Quando non abbiamo nessuno a cui chiedere, la media delle esperienze degli altri è un criterio di cui abbiamo imparato a fidarci.
USER EXPERIENCE
Non basta l’idea, i servizi devono essere usabili e Hotwire sembra fatto rispondendo alle domande che ho in mente. Nell’homepage si trova solo il campo di selezione del servizio desiderato; la ricerca può essere affinata scegliendo i servizi che l’hotel deve necessariamente avere – possiamo richiedere una piscina anche senza sapere dove e come – e soprattutto per le macro zone in cui il sito suddivide la città.
Questo è il massimo del controllo dell’utente, dopo di che è solo questione di ranking, intuito o casualità. Un esempio: a Londra ho chiesto che l’albergo avesse la palestra e che fosse o in zona “Bloomsbury – S. Pancras – British Museum” oppure “Notting Hill – Bayswater – Paddington”: zone abbastanza ampie, ma ragionevoli per un turista esperto. Ho scelto il primo risultato dell’elenco, ho pagato e ho subito ricevuto una mail da Hotwire che mi dava il benvenuto al Caesar Hotel. Ho cercato Caesar Hotel su Tripadvisor, tutto mi sembrava ok e ho sorriso.
Non esiste possibilità di rimborso. Scopro che l’albergo è infestato dai fantasmi o è apprezzato solo da chi si addormenta col rumore dell’autostrada? Fatti miei.
Per fortuna è stato un bellissimo weekend:

PERCHE’ MI PIACE E LO USO
Il motivo principale per me è che aggiunge un tocco inaspettato a una ricerca che sempre più spesso è diventata lunga e complicata. Anni fa per sapere dove dormire a Londra avrei chiesto ad amici, oppure avrei consultato una guida o chiesto in agenzia e quindi avrei avuto davanti un numero limitato (già filtrato) di scelte; oggi generalmente parto da Booking e da una lunga lista capisco disponibilità, prezzi e location, poi mi leggo un po’ di commenti per ridurre l’elenco, poi passo alla lettura delle recensioni su Tripadvisor per arrivare al finalista, ma le opinioni cominciano a diventare tante e discordanti, devo capire chi dà importanza ai miei stessi criteri e chi è un viaggiatore diverso da me, e con tutte queste informazioni la scelta non mi sembra più agevole ma più complessa.
C’è da aggiungere la piacevole sensazione di avere accesso con Hotwire a hotel che o non potrei permettermi o che hanno un prezzo che non mi interessa pagare, mentre ho davanti a me un’occasione che si presenta in quel momento, in futuro chissà. L’anonimato è uno strumento per proteggere gli hotel, che in questo modo non comunicano da nessuna parte lo sconto che stanno praticando in quel momento, e non compaiono nei risultati di motori di ricerca e siti di viaggi.
Infine ho fatto più di un acquisto perché mi sono sempre sentito un ospite come tutti gli altri, anche se non acquisto dall’hotel e pago una cifra inferiore. È l’esatto contrario della sensazione Groupon: “ah siete clienti Groupon, abbiamo posto tra 12 anni” o “voi avete diritto al bagno al piano meno tre” o “potete bere l’acqua che rimane sugli altri tavoli altrimenti sono 15€ a bottiglia”. Allo Sheraton di Monaco al contrario avevo la camera all’ottavo e ultimo piano, segnalato come piano dei “preferred guests” già in ascensore. Quando si viaggia, questi dettagli gratificano.
COSA MIGLIOREREI
Prima di tutto ci ho messo mesi a memorizzare il nome, come spesso mi succede con i servizi digitali, che hanno nomi che sembrano più da rock band emergenti che non legati a quello che offrono.
Ci sono poi due elementi di post-acquisto che non mi convincono. Primo, il sito non stimola in alcun modo la richiesta di recensioni dopo il soggiorno: mi pare un’occasione sprecata dato che le recensioni sono quasi l’unico criterio per rassicurare sulla qualità dell’albergo. Da questo punto di vista trovo eccellente il customer care di AirBnB, che dopo il soggiorno invita ripetutamente ospite e ospitato a popolare il sito di commenti, e li rende visibili sono quando sono reciproci, mentre trovo mediocre quello di Booking, che continua a mandarmi via mail offerte per città dove ho già soggiornato proprio attraverso il sito, quindi dovrebbero sapere che quella ricerca è conclusa…
Secondo, l’esperienza di post-acquisto è poco ludica e mi pare un’occasione sprecata: la ricerca deve essere facile e chiara, ma nella schermata dopo l’acquisto e nella mail che viene inviata potrebbero aggiungere tocchi più briosi legati al brivido della sorpresa, mentre lo stile è di una qualsiasi agenzia viaggi, anzi meno personale.
In sintesi Hotwire mi sembra un ottimo esempio di quanto abbiamo imparato a fidarci del web. Una volta per andare in un ristorante o per comprare un libro, ci fidavamo degli amici o dei super esperti o facevamo il contrario dei nostri nemici. È l’hamburgeria preferita di Salvini? Addio. Oggi non solo non entriamo in un ristorante senza avere controllato Tripadvisor, ma arriviamo a pagare, e non poco, un albergo senza saperne nulla, fidandoci di una visione parziale dei pareri di perfetti sconosciuti e di un sito che funziona bene.
Mi sento pronto per il dark web.
In un bellissimo caravanserraglio divenuto albergo abbiamo trovato un questionario dell’Università di Teheran sui motivi che spingono le persone a visitare e non visitare l’Iran come metà turistica. Accanto a quelli più ovvi come “si sta allentando la tensione con gli USA” oppure “le donne sono obbligate a coprirsi il capo” uno mi ha particolarmente colpito: “penso che viaggiare in Iran mi dia status”.
L’Iran evoca immagini che ti fanno sentire un viaggiatore non banale: meta poco esplorata e civiltà millenaria, rozzi uomini politici e raffinati registi o scrittori, confusa zona del mondo in cui non si capisce mai chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
In realtà l’Iran è un paese che prima di tutto mi ha sorpreso, ha preso le mie idee e le ha lentamente cambiate, mi ha dato status senza che me lo meritassi veramente.
Non bisogna dare retta agli sconosciuti con la barba nera:
Entravamo nelle moschee con la prudenza di chi non conosce le regole, sapendo solo di doverci togliere le scarpe. Pensavamo di dovere stare muti e contriti e di generare comunque un po’ di sospetto con le nostre facce bianche. Si è avvicinato un signore di mezza età, vestito di scuro, coi baffi e la barba, un classico caratterista musulmano di qualsiasi serie tv. Ci ha chiesto se conoscevamo la Moschea di Yazd e se poteva avere l’onore di spiegarcela. Attorno a noi sono arrivate una decina di persone, tra adulti e bambini: erano la sua famiglia. Ci andava di fare un giro con loro per la città di notte? La moglie della nostra guida era molto elegante, i bambini ridevano di gusto, i ragazzi più grandi volevano fare vedere di sapere parlare bene l’inglese, ma senza correggere i genitori, per rispetto. Ci hanno portati a spasso in una città affasciante e labirintica, tutta costruita col fango, tra torri del vento, vie buie, piazze con giochi arrugginiti e porte da calcio. Quando dovevamo entrare in qualche monumento andava avanti la signora per dire al bigliettaio che noi eravamo loro amici e farci entrare gratis come gli iraniani.
Erano una famiglia metà iraniana e metà irachena, la guerra del golfo li aveva divisi e da allora le giovane generazioni non si erano mai conosciute, fino a quella sera a Yazd, che loro hanno voluto condividere con due italiani, parlando inglese, arabo e Parsi.
Alla fine ci hanno salutato così: “ma voi avete Facebook? Allora possiamo diventare amici?”.

Prigione di Alessandro
In Iran sono tutti fanatici religiosi
In taxi, nei ristoranti, per strada, in casa varie persone ci hanno chiesto se eravamo religiosi per poterci dire che loro no, non lo erano. Ne ricordo una.
Una signora coi capelli bianchi, verso i 60 anni, elegante. Parlava un bell’inglese perché prima del ’79 aveva amici americani. Aveva una forte passione per la musica e mi ha insegnato il modo in cui gli iraniani schioccano le dita per accompagnare i balli. Eravamo in una casa privata e quindi abbiamo potuto ballare. Io imbarazzato e goffo, lei soddisfatta e sinuosa. Mi ha confessato di quanto le piaccia ballare, ma che ora può farlo solo in casa: anche ai matrimoni uomini e donne festeggiano separati. Mi ha raccontato di quando era giovane e andava al mare in costume, insieme a sua madre, e ora non più. Mi ha detto di essere atea e di quanto sia difficile vivere in un paese che ti proibisce di fare qualcosa che ami in nome di qualcosa a cui non credi. Mi ha confidato che gli Iraniani vivono una vita pubblica che è quella che ci aspettiamo noi Occidentali e il loro Governo, e una vita privata dove bevono alcol, ballano e indossano pantaloni corti. Va tutto bene, purché non si veda fuori e non si pretendano diritti. Nel mio piccolo ho sentito che avevamo in comune più di quanto io e lei ci saremmo aspettati, con la sola differenza che di noi due solo lei sapeva ballare.
Le donne musulmane non ti rivolgono la parola:
La tomba del poeta è uno dei luoghi più amati dagli iraniani. Anche chi non abita a Shiraz ti chiede se ci sei già stato e ti invita a farlo il prima possibile. Si tratta di un semplice e bel giardino, con piante, alberi, panchine e al centro una pietra commemorativa di questo poeta edonista.
Dal tramonto centinaia di iraniani si riversano nel giardino a trascorrere la serata, passeggiata, leggendo i versi di Hafez e scattandosi foto improbabili. Tra i giovani il selfie con la tomba va fortissimo.
Siamo rimasti un po’ distanti a guardare questi momenti quotidiani e speciali allo stesso tempo, quando si sono avvicinate due ragazze, molto belle e eleganti e ci hanno, come diremmo noi, abbordato. Ci hanno tempestato di domande (la più frequente domanda in tutto il viaggio è stata “ma cosa si dice da voi degli Iraniani? Pensate che siamo tutti terroristi?”) e ci hanno detto che per loro è una fortuna potere parlare con degli stranieri e esercitare l’inglese. Quando ci hanno invitati ad andare a cena con loro, abbiamo pensato che va bene sfatare i cliché, ma qui si esagera. Non sono passati più di cinque minuti che è arrivata un’altra ragazza con la madre e ci ha chiesto se eravamo francesi. No. Sapevamo parlarlo? No. Avevamo notato qualche francese? Lei voleva tanto esercitare un po’ di conversazione, per caso noi eravamo stati a Parigi?
E siamo passati la sera così, tra persone che si scattavano foto ricordo, giovani che cercavano stranieri per fare lezione in una calda notte estiva.

Giardino Botanico a Shiraz
Gli Iraniani sono nemici dell’Occidente:
Una volta una persona mi ha detto che c’è più differenza tra un ventenne inglese e un quarantenne inglese (con buona pace dei quarantenni giovanili) che non tra un ventenne inglese e un ventenne russo.
Diciamo che c’è un periodo nella vita in cui diventa molto importante avere la scritta giusta sulla maglietta, il brand che ti fa sentire figo, il simbolo che ti fa appartenere a un mondo. Non essendo dotati di un verso per segnalare la disponibilità all’accoppiamento, dobbiamo scriverci delle cose addosso e sperare che parlino la lingua corretta. Ecco, se sei un giovane iraniano e intorno a te c’è l’embargo dei prodotti occidentali è un bel problema, ma crea anche le soluzioni più divertenti che ti capita di vedere in giro.
Ho visto un gruppo di ragazzi chic e tecnologicamente evoluti vestiti con il celebre brand: Giorgio Armani, www.giorgio.it, perché è il sito che fa la differenza
Altri, sempre spendaccioni ma con l’anima sportiva, avevano la famosa tuta: Giorgio Armani Adidas oppure Giorgio Armani Nike, perché gli iraniani conoscono il valore della democrazia.
Adidas tra l’altro produce in Iran una linea che non conoscevo, la Saltimbanco, con una scritta che occupa due righe e dice “The only fashion shaoyu design vershion brand for Sports Medicine & Orthopaedics”. Giuro.
Alcuni, più hipster, fanno meno sfoggio dei global brand, ma si giocano frasi accattivanti come il gaudente “Work Hard, Part Harder”, che temo significhi qualcos’altro rispetto a quello che immagino, l’esortativo “Be Shart”, volentieri se mi dici come, o il metafisico “I can’t stop living you”, con accanto tra l’altro l’immagine di una bici.
Ma la più misteriosa di tutte è questa, se qualcuno ha idea di cosa significhi, gli sarò infinitamente grato

T-Shirt Fly Vivere a Kashan
Non posso garantire che chiunque vada in Iran veda le stesse stranezze e vivere le stesse emozioni, ma questo è il percorso che abbiamo fatto noi, con indicazioni di mezzi di trasporto, alberghi e ristoranti.
Tracciare una mappa dei luoghi in cui si è stati è un po’ come rivivere il viaggio.
Creare la mappa della Birmania è un po’ come rivivere il senso di smarrimento del viaggio. Ho provato a cercare hotel in mezzo all’acqua, templi in mezzo ai monti, fermate del pullman in mezzo al nulla: alla fine mi sono dovuto rassegnare a piazzare i marker dove più o meno me li ricordo. E’ comunque molto di più di quello che sapevamo noi quando siamo partiti e quindi spero sia utile.
Potrei avere sbagliato di qualche chilometro, ma in Birmania non bisogna avere troppa fretta, o bisogna sperare che gli orologi funziono tutti allo stesso modo.

Quando sono arrivato in Birmania non avevo nemmeno un’immagine nota davanti agli occhi. Tutto quello che avevo in mente erano la foto di The Lady e i disegni verdastri sulla pagine di Delisle, le sue camminate col passeggino tra file di monaci, vicini curiosi ed esotiche pagode. Ammetto che per un po’ ho faticato a formarmi un’idea visiva del posto che stavo attraversando. Le città non aiutano: Yangoon è una capitale confusa attorno a una bellissima pagoda, di Mandalay, nonostante il nome poetico, ho un ricordo rumoroso e afoso. Nemmeno il cibo aiuta a sentirsi parte di un luogo: non c’è nessun particolare odore evocativo e colore dominante, tanti curry tutti uguali, con alcune oasi di piacere che ricordo con affetto, ma che sembrano quasi decontestualizzate. Poi ho iniziato a sentire la forza delle persone che incontravo, dei volti che rendevano i luoghi diversi da come li stavo vedendo, delle parole che mi aprivano a nuove idee e nuove immagini.
Golden Rock, 22 dicembre, i pellegrini che volevano una foto: Siamo in un luogo sacro, frequentato quasi solo da buddhisti che si accampano lì tutto il giorno a non fare praticamente niente, se non ad ammirare la Roccia d’Oro e ad attaccare fogli d’oro sulla sua superficie. Ci sediamo sui gradini sotto la roccia, dove quasi tutti scattano fotografie per immortalare l’oro contro il verde delle montagne. Un ragazzo birmano, di qualche etnia che non distinguiamo, alcuni gradini sotto di noi si sta facendo fare una foto dagli amici. Si sposta un po’. Poi un altro po’. Ci accorgiamo che si sta spostando lentamente per fare sì che anche noi siamo nella foto. Sorridiamo al fotografo. Tutti gli amici iniziano a saltellare entusiasti. Il più coraggioso inizia a salire verso di noi e tutti gli altri gli vanno dietro. In 5 secondi siamo circondati da una decina di ragazzi. Lo dico con onestà, sono così brutti con i denti rovinati e rossi, l’odore incredibile di Betel, i vestiti di una finta marca italiana, Giorenzo, con loghi e scritte giganteschi. Se qualcuno mi taggasse su Facebook dovrei disiscrivermi. Si stringono intorno a noi, ci abbracciano, cambiano posizione e ognuno vuole la foto con il suo cellulare. Qualcuno parla un po’ di inglese e ci chiede da dove veniamo. Ah, Italy! Totti. Sì, Totti. In alto le persone strofinano l’oro sulla roccia e lasciano cadere piccoli fogli colorati.
Bagan, 28 dicembre, il signore che avvolgeva la lacca: Ci fermiamo con la bici davanti a uno negozio che vende lacca. E’ buio, dentro ci sono pochi turisti, nel retrobottega alcuni uomini fumano, altri sono davanti a un piccolo televisore a guardare un vecchio film americano, alcune donne bevono the. Il proprietario del negozio prende i nostri vassoi, si siede per terra e inizia ad avvolgere tutto nella carta. Dietro di lui c’è un grande paravento con l’immagine di Aung Sang Suu Kyi: è giovane, sorride, ha un fiore nei capelli. Il signore ci guarda, ci dice che The Lady è la speranza della Birmania e che è emozionato per le elezioni che ci saranno. Gli chiedo se Suu Kyi potrà vincere e lui mi dice che si sono inventanti una legge per non farla diventare primo ministro: nessun primo ministro può essere sposato con uno straniero e lei è vedova di un inglese. Ha gli occhi pieni di speranza e la voce di un disilluso. Sul paravento è appeso un cartello: “Please, no photos”.
Kalaw, 30 dicembre, la monaca che preparava l’aperitivo: Non è una delle principali attrazioni del posto, ma andiamo al monastero solo perché a Kalaw non c’è molto da fare nell’attesa del trekking. E’ fine giornata, il pavimento su cui dobbiamo camminare è freddo, ci sono vari cani che dormono, la porta è chiusa. Una signora ci vede e ci fa conduce fino a una porta aperta. Entriamo nella pagoda. Sulla destra un monaco fa esercizi spirituali. Una coppia di birmani con un bambino è seduta a terra a pregare. Sulla sinistra ci sono 3 donne che parlano animatamente, una è una monaca con davanti una scodella di riso, cibo e the. Ci invitano a sederci. Appena lo facciamo la monaca riempie alcune ciotole a una signora ce le porta. Non sappiamo bene cosa dobbiamo fare, la monaca ci fa capire che possiamo stare lì con loro tranquillamente, finché ci va. Beviamo il the, stiamo in silenzio un po’, senza fare nulla. Non stiamo meditando, stiamo semplicemente godendo della quiete di fine giornata. La monaca in realtà non smette mai di intrattenere le signore intorno a lei, deve avere tra le mani una storia piuttosto divertente. Sulla sfondo la statua del Buddha nella posizione del loto e la solita incredibile corona di luci colorati, intermittenti e sfarfallanti che sono la cosa meno sacra che ho mai visto in vita mia.
Lago Inle, 1 gennaio, la donna che illuminava il lago: Un uomo e sua moglie sono fermi al porto del lago Inle e offrono trasporti in barca ai turisti. Lui diventa il nostro pilota per due giorni, con le sue battute in inglese stentato, i suoi pisolini mentre ci aspetta e i denti rossi per il betel; lei risponde al telefono, contratta i soldi e organizza tutto. Abbiamo fatto tardi e dobbiamo tornare in albergo, in mezzo al lago. Per qualche soldi in più ci fanno fare anche quest’ultima tratta. Non c’è nessuno nel lago di notte, il silenzio è totale, come il buio. Lui si mette dietro, al motore, lei davanti con una torcia illumina il lago, dove di notte salgono in superficie nuvole di alghe che possono bloccare le barche. Siamo tutti avvolti da coperte, noi guardiamo le stelle così grandi, loro il lago. Lei si volta verso di noi, e con la torcia illumina una casa sulla riva. E’ la nostra casa, dice allegra, è in costruzione, la stiamo ingrandendo. E’ una casa come tante, ma la illumina a lungo, muovendo la torcia per farcela vedere bene. Il marito rallenta un po’ il motore e in tutto quel lago meraviglioso è l’unica cosa che ci chiedono di guardare. Sono orgogliosi di avere una casa che sta diventando più grande. Più avanti finiamo in un banco d’alghe, lei prende un remo e le sposta un po’ alla volta, mentre lui alza il motore e rema per farci uscire da lì.
Lago Inle, 3 gennaio, il ragazzo che aspettava l’autobus: Siamo fermi su una strada che non conosciamo, in mezzo a decine di turisti con in mano il biglietto di un pullman e altrettanti birmani con diversi biglietti. La strada è buia e polverosa, i pullman arrivano, si fermano un paio di minuti, bisogna controllare che abbiano lo stesso nome che c’è sul biglietto e si sale. Accanto a noi c’è un ragazzo birmano, vestito come un occidentale, che ci guarda e sorride. Siete italiani? Sì, ragazzo, capisci l’italiano? Ho avuto un ragazzo italiano. Così, in un posto che dovrebbe essere una fermata di pullman e in realtà è solo una strada, questo ragazzo ci dice una cosa di sè che mi sembra così decontestualizzata. Si può parlare di omosessualità in Birmania? Se ti sente qualcuno, è un problema per te? Il ragazzo è nel nostro stesso pullman, seduto una fila davanti a noi, si gira spesso, sorride quando dividiamo le cuffie per ascoltare musica, ci traduce quello che dice l’autista e l’improbabile hostess. Quando scendiamo per cenare ci dice che lui studia, è di Yangon, sta girando il paese come turista, il ragazzo era di Roma, gli piacerebbe tanto venire in Italia: he liked me so much. Ci chiede se vogliamo fare colazione insieme quando arriviamo a destinazione. Poi noi arriviamo a destinazione prima di lui e ci dicono di scendere. Ci guardiamo dispiaciuti. E’ l’alba, sorride un’altra volta e poi torna a dormire.
“
London for One” è una sorta di guida che ho creato per chi si trova a Londra da solo e non vuole rinunciare a godersi la città tra visite, passeggiate e soprattutto ristoranti.
Quando si viaggia in compagnia non è difficile trovare consigli su ristorantini a lume di candela per due, su posti in cui fare baldoria con amici, su ambienti family-friendly.
In città come Londra, però, ci si trova spesso per piacere o per lavoro o per casualità anche da soli. Perché dobbiamo restare in albergo a guardare un po’ di TV o cenare nel primo ristorante dietro l’angolo invece che nel migliore?
Stando a Londra vari mesi per conto mio mi sono accorto che non tutti gli ambienti sono adeguati a una persona da sola e ho iniziato ad appuntarmi quelli in cui mi sono sentito a mio agio a leggere, a mangiare, a camminare, a perdere tempo.
E’ una lista personale, incentrata sulla zona in cui ho vissuto e lavorato, con una particolare attenzione ai ristoranti, che sono spesso la situazione più “imbarazzante” per chi vuole mangiare bene, ma non ha compagnia.
Ho consigliato anche alcuni posti come i musei che sono naturalmente adatti ai viaggiatori solitari, ma li ho selezionati pensando ad altri luoghi a loro vicini e che possono facilmente abbinati, come caffetterie e parchi.
Mi piacerebbe continuare ad arricchire questa guida anche in futuro, raccogliendo anche i consigli di altri viaggiatori.
London For One è su Everplaces, un bellissimo servizio di localizzazione che ho conosciuto grazie all’esimia Tostoini.
Scena tipica delle mie giornata londinesi: vari Italiani intorno a un tavolo, varie quantità di alcol di varia provenienza – dal Pimm’s al prosecco al sidro alla birra al vino – l’occhio acuto e la lingua tagliente nel giudicare gli inglesi che ci circondano. Si parla di persone, trasporti, culture, tempo libero, ristoranti, l’essere giovani, l’essere vecchi, l’umidità, i topi, le zanzare, la vita. Si confrontano città, si cerca il posto giusto in cui stare, almeno per un po’. Questo post è una sfida tra Milano, la città in cui per ora risiedo, e Londra, città in cui ho vissuto per 4 mesi, in cui si prendono punti in categorie completamente casuali, soggettive e arbitrarie, e in quanto tali infallibili. Diffido di chi sceglie le proprie città elettive basandosi sulla ragione.
Tutti nudi, ma non troppo: segna Londra con pudore
La presenza di un qualunque estraneo (se non proprio di un qualunque essere umano) rende l’inglese estremamente cauto e incredibilmente goffo. I contesti in cui si è forzati a stare a contatto con gli altri e in cui non si beve alcol sono dei piccoli grattacapi sociali. Prendiamo lo spogliatoio di una palestra, dove bisogna stare a contatto con estranei discinti e sudati. Sembra che agli italiani appena entrati nello spogliatoio i vestiti esplodano di dosso: le persone fanno infinite camminate nudi salutando a destra e sinistra come sulla Croisette, si pesano come davanti a nostro Signore e con dietro tutti gli altri, si contemplano, si analizzano e perlustrano senza problemi allo specchio, soprattutto fanno amabili chiacchierate in presenza dei rispettivi augelli. Lo spogliatoio inglese al contrario sembra il Cirque du Soleil degli acrobati con l’asciugamano, è la gara a chi mostra meno carne, si indugia molto meno tra le rispettive nudità e tutto viene svolto molto in fretta evitando il più possibile il contatto visivo. Non credo sia una differenza di disinibizione sessuale, piuttosto noi siamo una cultura di narcisismo fisico e quindi sbattiamo in faccia a chiunque l’orgoglio del nostro corpo, mentre per gli inglesi è meglio abbandonare alla svelta un campo minato di corpi e interazioni. Preferisco contemplare i risultati dello sport a casa e avere da condividere un luogo più sereno per timidi, complessati, minoranze.
Le mie prove sul campo: Regent’s Health Club e Get Fit di via Piacenza.
Interessarsi agli estranei: segna Londra, Milano colpisce un palo
Quando si fa turismo a Londra bisognerebbe stare seduti un’ora su una panchina e godere lo spettacolo della varietà di persone che ti passano costantemente sotto gli occhi. Sessi, razze, gusti, stili, atteggiamenti, culture, storie. Stare in mezzo alla gente a Londra è di per sé una ginnastica mentale che richiede di abbandonare i pregiudizi, di limitare le aspettative e di lasciare che ognuno parli per se stesso. C’è molta vitalità in una città in cui non riesci a prevedere le persone con cui dovrai interagire, dal lavoro, agli uffici pubblici, ai vicini al cinema. Un esempio quotidiano: entri in un bar e non sai chi ti servirà, come pronuncerà quello che ti vuole chiedere, quanto rapidamente vi capirete. Tutta questa vitalità porta però anche a molta volatilità: difficile incontrare due volte la stessa persona come in Italia, in cui il bravo barista sa quello che vuoi, ti saluta riconoscendoti, si accorge se per un po’ di tempo non vai. L’incredibile turn over di persone ti fa sentire in un posto sempre diverso e ti apre la mente, ma non può garantire quel calore umano che richiede un po’ di costanza e che alla fine ti dà la sensazione di appartenere.
Le mie prove sul campo: da Carluccio sotto casa ho incontrato persone bellissime, ma mi hanno chiesto mille volte la stessa cosa, mentre il mio barista di via Crema sa che prendo il cappuccino col cacao.
La cultura dà da mangiare: goleada londinese
Londra è letteralmente invasa di manifesti di spettacoli teatrali, film in uscita, album in lancio, mostre attesissime. E le persone ci vanno. Certo, essere in un’economia sana stimola a spendere di più per il tempo libero, ma non è solo una questione di soldi, bensì di mentalità e organizzazione. Prima di tutto riuscire a partecipare a una qualsiasi manifestazione culturale a Londra è molto più facile che a Milano: tutto è acquistabile online, non ci sono processi di ritiro insensati, non ci sono costi nascosti e inspiegabili, non ci sono spettacoli riservati ai ricchi, agli abbonati, agli amici di. Chiunque abbia mai provato ad acquistare un biglietto per la lirica in Italia, ad esempio, sa quanto possa essere frustrante, costoso e senza alcuna certezza del risultato (dopo ore passate a navigare siti non chiari). I teatri londinesi rinnovano gli ambienti, fanno offerte, creano prezzi per tutti, investono in spettacoli classici, in nuove produzioni, in classici tecnologicamente rivisitati. I cinema sbucano ovunque, anche sui tetti, creano simpaticissime serate a tema, ti permettono di mangiare e bere in sala qualsiasi cosa. I musei inglesi sono dei luoghi aperti in cui la gente si mette per terra a disegnare, in cui si possono scattare foto, in cui si possono addirittura toccare gli oggetti. Il successo della cultura non sta solo nella quantità di soldi che girano, ma anche nella capacità di renderla facile, diffusa ed estremamente varia.
Le mie prove sul campo: i posti in piedi da £5 per i BBC Proms, la frustrazione di prendere i biglietti a La Scala.
È tardi! È tardi! Bisogna correre: Milano segna su calcio piazzato
Ammettere di avere tempo è il più grave peccato della società moderna. Non hai troppo da fare? Sei un perdente. Più grande è la città in cui si vive, maggiore è la retorica della scarsità di tempo. Oggi viviamo una tensione tra il numero potenzialmente infinito di opportunità e cose da fare che la tecnologia ci porta a conoscere e ci rende a finta portata di mano, e il numero per sempre fisso di ore che abbiamo a disposizione: da questo contrasto nasce l’ansia di non avere tempo, che a New York diventa addirittura FOMA. Bisogna così ingegnarsi anche per fare sport. A Londra la gente letteralmente corre al lavoro. Tante persone che praticano il running non vanno a correre, si docciano a casa e vanno a lavorare (o viceversa), ma rendono il tragitto da casa al lavoro il loro percorso sportivo. Questo significa che i runner londinesi corrono con grandi zaini pieni del cambio e delle cose per lavorare e all’inizio danno tutti l’impressione di persone che hanno dovuto abbandonare la propria casa in fretta e furia e stanno fuggendo. Ad aggiungere buffezza alla scena i londinesi hanno anche delle bottigliette d’acqua con manico per bere continuamente: si sa che a Londra l’idratazione è un problema… Correre in mezzo al traffico con lo zaino e una bottiglietta in mano è da pazzi, end of the story: preferisco i frettolosi milanesi che trovano ancora il tempo per passare per casa e si inventano percorsi in striminzite aree verdi.
Le mie prove sul campo: Euston Road con i runner nel traffico in una città di parchi, Parco Ravizza con i runner che fanno mille volte lo stesso piccolo percorso.
Mangiare con le stelle: inaspettato gol inglese (Ndr ricordarsi che nessuno batte New York)
In una grande città in cui il tempo scarseggia, non si può sbagliare nulla e certamente non si vuole sbagliare il ristorante o peggio ancora il piatto che si ordina. A Londra tutto è recensito, stellato e commentato: non si scopre mai veramente un ristorante, si nota che molta gente gli sta dando un buon voto. In una città in cui l’offerta è così varia e i ristoranti aprono, si evolvono o chiudono nell’arco di poco tempo questo proliferare di opinioni è utile e stimolante: l’app del TimeOut è un punto di riferimento, TopTable ti chiede una recensione sui ristoranti che hai prenotato online, Foursquare è pieno di utili tips. Nel complesso tutta questa produzione di contenuti invoglia molto a provare nuovi ristoranti e cucine e contribuisce a tenere una città molto viva. Anche a Milano si mangiano bene piatti molto diversi, ma trovo meno immediato scovare le novità e incuriosirmi. Poi certo la voglia di una vita culinaria stellata crea anche delle inaspettate interazioni nei ristoranti. A Londra, proprio dove le relazioni sociali vengono subite e mai provocate, i camerieri sono stranamente socievoli: “complimenti ottima scelta”, “è il mio piatto preferito”, “avete ordinato le cose migliori”. All’inizio pensavo davvero di essere un asso del menu poi ho capito che è la pressione sociale di fare tutto al meglio, come da recensione, a rendere i camerieri così rassicuranti. Forse non è un caso che l’ultima tendenza dei ristoranti londinesi sia il menu di 4 righe, né fisso né alla carte, semplicemente ridotto all’osso. In un posto senza tempo e pieno di opinioni, datemi solo quello che merita veramente e fatemi vivere la migliore esperienza di tutti.
Le mie prove sul campo: a Londra sceglievo dove andare a mangiare mentre camminavo per strada usando l’iPhone, a Milano tendo ad andare sempre nei miei punti di riferimento.
Il pendolarismo fa l’uomo cattivo: sorprendente pareggio.
Degli Inglesi si dice sempre “signora mia, come fanno bene le file loro. Tutti ordinati e rispettosi e che occhiatacce se ti comporti male”. Certo, nei musei, nei bar, alla fermata dell’autobus. Sottoterra invece The Hunger Games. Ho preso metro in tutto il mondo e davvero mai come a Londra ho notato tutti insieme i grandi tabù del passeggero metropolitano: salgono prima che gli altri siano scesi, non si distribuiscono nello spazio, ma si piazzano in mezzo e oltretutto sono inamovibili, nessuno scende mai per agevolare gli altri. Scene che a Milano ancora sollevano indignazione, occhiatacce, commenti ad alta voce e tweet polemici a Londra sono ormai ignorati ed accettati, segno di imbruttimento diffuso. La verità è che in una città così estesa in cui le persone passano letteralmente la vita sui mezzi pubblici e in cui vige una regola ferrea per cui qualsiasi spostamento richiede almeno 45minuti, si diventa più duri e ognuno è un potenziale nemico. Perché non vince Milano? Perché i trasporti pubblici di Londra sono comunque eccezionali. Servizi che mi hanno commosso: l’applicazione per gli spostamenti in metro (TubeMap), la mail del giovedì dei trasporti di Londra con le informazioni relative al weekend, le fermate dell’autobus con indicata la direzione degli autobus e la mappa delle fermate vicine e di tutti i principali collegamenti. Le mie prove sul campo: le spallate date nelle principali stazioni, gli innumerevoli autobus “on diversion”, su cui però non mi sono mai perso.
Ovviamente il bello delle sfide casuali, soggettive e arbitrarie è che uno poi è libero di ignorare il verdetto o aggiungere altre categorie a caso per truccare il risultato. Certo il dubbio mi rimane.
Ringrazio per le chiacchiere, i commenti, i confronti e le cattiverie: Francesca, Richard, Serenella, Mauro, Sara, Matthew, Fabio, Bianca, Matteo, Adelaide, Carmelo, Silvio, Giorgio, Roberta, Federico, Amanda.
Una volta Gianni Clerici, commentando una non memorabile partita di tennis, ha iniziato una delle sue famosi digressioni su tutt’altro argomento. Alla fine del racconto ha ammesso candidamente di non avere idea se questo fosse vero o no, ma che non bisogna mai rovinare una bella storia con la verità.
Ecco, faccio sempre tesoro di tale insegnamento quando qualcuno mi racconta una storia che mi piace: non pretendo che sia tutto vero e mi metto comodo comodo in ascolto.
“Ma tu sai perchè a Londra si festeggia ad agosto un carnevale con musiche e balli caraibici?”
“No”
“Negli anni ’60 a Notting Hill cominciò un periodo di notevole violenza di origine razziale per le strade. Gruppi di neri e gruppi di bianchi misero a ferro e fuoco le strade, segnando moltissimo una zona così pacifica, tranquilla e elegante come Notting Hill. Pare che le immagini dell’epoca siano davvero incredibili per chi le guardi oggi e si immagina le strade in cui successe. Il Carnevale nacque come festa spontanea (all’inizio si teneva addirittura al coperto) e catartica per celebrare la fine di quel periodo, un’occasione per festeggiare tutti insieme la cultura delle popolazioni afro-americane e l’integrazione razziale.”
[Non so quanto questo racconto sia esatto, potrei controllare su Wikipedia, rimango fedele alla regola delle storie che mi piacciono].
A me questo Carnevale di agosto, tra le strette ed eleganti vie di Notting Hill, è sembrato proprio così: un festoso, eccessivo, pacchiano e travolgente momento di integrazione.
Ogni gruppo, con i suoi costumi, i suoi musicisti e ballerini è più un invito a partecipare che non a ammirare.
Persone con la musica nelle vene accanto a goffi o pigri figuranti, fisici scolpiti a stretto contatto con gioiosi corpi debordanti, giovani nel fiore degli anni che cedono il passo a persone che di carnevali ne devono avere visti.

Tutto parte come una vera parata di ballo e sartoria, poi metti insieme tanta bellezza, tanti corpi, tanto ritmo ossessivo, tanto alcol e il ballo diventa sempre più stretto, il movimento più ondoso e la voglia più evidente.
Diciamo che si passa dal “guarda come te la ballo” a “guarda dove te l’appoggio”, che può essere anche “guarda dove me lo metto”, perché l’integrazione è totale e uomini e donne si comportano allo stesso modo.


Intorno turisti, londinesi, inglesi, persone che semplicemente abitano nella zona che iniziano timidi, fanno qualche foto, poi si lanciano nelle danze, seguono il corteo, si disperdono, provano il primo timido appoggio, il secondo è già più deciso, salgono sui tetti, si mascherano, si mettono in posa.

Il tutto bevendo, bevendo, bevendo e mangiando lo stesso cibo di strada che si mangia in tutto il mondo, l’unico verso segno spontaneo e tangibile della globalizzazione: la pannocchia.
Col senno di poi, il grande panico che sembrano avere nel quartiere per il Carnevale mi è sembrato un ottimo distillato di spirito inglese: un modo per organizzare tutto, per lamentarsi di tutto (che gli inglesi siano, a modo loro, degli infiniti e innocui brontoloni, lo sostiene l’antropologa Kate Fox) e creare tanto bel chitchat.
Così la mia vicina di casa che prima mi racconta che il carnevale è bellissimo, poi mi consiglia di fuggire, infine mi confessa che lei e suo marito si sono conosciuti proprio alla parata. La mia storia preferita: pare che nei giorni appena precedenti a Londra cali la microcriminalità per paura di farsi beccare e perdersi il carnevale. L’allarme più buffo: “attenti alla disidratazione”, detto in una città che galleggia sull’acqua ed è annaffiata da pioggia e birra.
In ogni caso i negozi si barricano e prima dell’arrivo della parata l’atmosfera è surreale.

Alla fine di due giorni danzanti e licenziosi, dopo tanto strusciare, bere, arrapare ho visto ragazzi a malapena vestiti salutarsi educatamente con due bacetti sulle guance e tutto questo carnevale mi è sembrato un bellissimo modo per fare tanto rumore quanto devono averne fatto le sommosse urbane, usando altri strumenti e diversi contatti fisici e soprattutto col sorriso sulle labbra.
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1. Tutte le città cool hanno un clima terribile: sarà anche colpa del periodo che scelgo per andarci, ma per me Berlino è il gelo che ti prende il cervello, passa misteriosamente per le ginocchia (laddove in genere non battono sensazioni) e finisce nei piedi, dove rimane fino al terzo bicchiere di alcool. Ho avuto altrettanto freddo solo attraversando Central Park a gennaio. La cosa però che mi rasserena dei Berlinesi, rispetto ai Newyorkesi, è che almeno si vestono per il clima che hanno, non girano con le gambe nude o i piedi scalzi, e anzi indossano cose punitive o buffe, ma sicuramente caldissime.

2. Si può mangiare (bene) asiatico spendendo poco: di Berlino si dice che sia la più economica delle capitali europee e credo sia vero. Mangiare con poco non significa solo mangiare wurstel (nessuna critica, vedi poi), ma anche cucina asiatica di altissimo livello, vietnamita o thai, e spendere quanto da noi per una pizza e una birra. Ecco, se qualcuno volesse importare a Milano il modello di ristoranti a medio prezzo, con cucina fantasiosa, adatti a persone curiose di piatti del mondo, beh, avrebbe la mia riconoscenza e sarebbe un’altra dimostrazione che Berlino fa tendenza. Il mio stomaco si è invaghito del Transit e del Saigon and More.
3 Si può prendere la metro senza blocchi di accesso: a Berlino non ci sono tornelli che limitano l’ingresso all’intricata rete ferroviaria che attraversa la città e funge da trasporto pubblico. Idealmente chiunque può salire e scendere a piacere, con o senza il biglietto. Non so dire quanti se ne approfittino e quanti siano onesti, certo è che ho sempre visto persone comprare i biglietti (non economici!) alle macchinette. Mi ha fatto bella impressione pensare che la città si fidi di abitanti che non la tradiscono, o che sia abitata da gente affidabile che non necessita di controlli.

4. Il freddo cambia il gusto, saggiamente: io non mangio wurstel e non bevo vino speziato, eppure raramente ho provato una sensazione più piacevole di un bicchiere bollente di Gluwein e soprattutto di un currywurst. C’è una poesia greve, solida e intensa in quel pezzo di maiale, affogato nel pomodoro piccante, con cipolle galleggianti e una spruzzata di curry, che contribuisce al calore del proprio corpo, del locale e del cosmo intero.
5. Le gru sono parte del panorama: Berlino è la città nuova, delle costruzioni, dell’Europa che ha ancora soldi da spendere, del passato da superare, se non lo si può dimenticare. Sembra strano da dire, ma a Berlino si ammirano e si fotografano i lavori stradali, le gru colorate che svettano nel cielo e si muovo in un gioco di incastri, i macchinari strani che scavano la terra e vi infilano dentro marchingegni da vecchi film di fantascienza. Se non fosse per quel maledetto freddo, sarebbe la città ideale in cui vivere la pensione, con le mani dietro la schiena, a contemplare tale operosità pubblica.

6. L’architettura contemporanea può essere simbolica, utile e bella: in una città da ricostruire, si è avuto il coraggio di lasciare esprimere gli artisti contemporanei, primi tra tutti gli architetti. Dal Museo Ebraico a Postdamer Platz sono le strutture contemporanee a raccontare la storia di ieri in maniera diversa e emozionante. Il mio punto preferito della città è la cupola del Reichstag: l’idea di mettere una copertura “trasparente” a proteggere il Parlamento è geniale. Il fatto di potere ammirare la città dall’alto, con comodo e in modo circolare è utilissimo. Le due scale elicoidali che attraversano la struttura sono talmente giuste che non si riesce a immaginare nessun altra soluzione possibile.
Berlino è così, piena di idee che vorresti avere avuto tu.

Il Perù è stato il viaggio delle prime volte. Seguendo una personale predilezione per gli elenchi, lo racconterei così:
- Ho visto nuovi animali: il condor è il cattivo dei racconti di quando siamo bambini, che ci insegnano il bene e il male. In Perù li vedi planare a 4000m, aprire ali enormi e, senza muoverle, scivolare sicuri nel vuoto, sfruttando le correnti. I bambini li salutano e li applaudono. Gli ex bambini cercando di immortalarli mentre passano alle spalle di amanti, amici, parenti. Li abbiamo visti risalendo dal Canyon del Colca, prima del tramonto e all’alba, regali e solitari come solo grandi uccelli necrofagi possono essere.

foto di Mauro Tosca
- Ho camminato per 52km mai al di sotto dei 2000 metri: dicono che il Perù sia il paradiso del trekking e dicono una cosa vera. Alcuni dei posti più incredibili che si possono ammirare sono raggiungibili a piedi. Il Salkantay Trek, che abbiamo fatto sotto la guida di United Mice, è stato una cosa molto faticosa che rifarei domani stesso. Siamo saliti fino a 4600m e da lì siamo andati ancora un po’ più su per vedere una piccola laguna. Abbiamo sentito il suono lontano e pauroso delle valanghe che cadevano dalle cime intorno a noi. Abbiamo dormito in tenda al gelo, coprendoci con tutto quello che avevamo nello zaino, con un cielo stellato così limpido che ti cadeva addosso. Abbiamo visto la Croce del Sud e abbiamo pensato ad altri viaggi, altre scoperte, altri marinai. Abbiamo fatto merenda con wonton, marmellata, burro, pop corn e infuso di coca. Abbiamo attraversato la foresta con colibrì, pappagalli, fiori tropicali e abbiamo bevuto il mais fermentato. Ci siamo spostati da una riva all’altra con carrelli sospesi nel vuoto, tirati a mano. Ci siamo immersi in un’acqua che aveva la stessa temperatura del corpo e abbiamo pensato al paradiso. Abbiamo camminato lungo la ferrovia che porta vicino a Machu Picchu e ci siamo sentiti adolescenti. Abbiamo vissuto, dormito, mangiato secondo il sole e non ci è parso strano

foto di Mauro Tosca
- Ho visto bambini in coda per vedere la TV: in un angolo del mercato di San Pedro c’era un televisore con un cartone di Bugs Bunny e tutti i bambini avevano lasciato le loro bancarelle, i loro giochi di strada, il loro girare e stavano a bocca spalancata davanti a questo focolare domestico in un luogo pubblico. Come loro i bambini di Pisac, attaccati alla vetrina di un negozio di alimentari con una TV in bella vista, a ridere e commentare tutti insieme. E pensare che la TV sarebbe diventata sociale grazie a internet…

foto di Mauro Tosca
- Ho ricevuto richieste di rating su Tripadvisor, anche nei luoghi più sperduti: forse è dovuto al turismo americano così presente in Perù, ma tutti i ristoranti e gli alberghi che dispongono di un buon rating lo mostrano con orgoglio e nessuno si imbarazza a chiedere apertamente una recensione ai clienti. Uno chef di Cusco ci ha raccontato dell’attenzione bellicosa dei ristoratori per questo strumento, che muove clienti alto spendenti. Di proprietari che mettono recensioni negative ai concorrenti, per abbassarne anche solo momentaneamente la media. Della mancanza di controllo che chi abbia lasciato la recensione sia effettivamente stato in quel posto. Dei controlli ossessivi ogni mattina sulla posizione nel ranking. Poi nasce la domanda: si sta affermando un nuovo turismo omologato basato sulla media dei viaggiatori precedenti? E’ la soluzione migliore? Come prima i francesi andavano nei posti consigliati dalla Routard e gli altri in quelli della Lonely, così ora i possessori di smartphone vanno nei primi 20 di Tripadvisor? Ma chi si prenderà la briga di andare nei posti non recensiti? E chi vivrà un’esperienza che gli altri non hanno già fatto?
- Ho parlato con un taxista che era anche una guida turistica e un gourmet: la Lonely dedica tante pagine alla Valle Sacra quanto ai pericoli del Perù. Ammirerete rovine Inka, vi deruberanno e i taxisti vi trufferanno. In realtà noi abbiamo conosciuto persone molto amichevoli, incuriosite dall’Italia (il calcio ha il potere taumaturgico di distogliere dalle domande su Berlusconi) e con una particolare fissa per Venezia (sospetto che da qualche parte una TV con un programma su Venezia ha raccolto attorno a sè molte persone). Capire o non capire lo spagnolo non frena i taxisti dal parlare del loro paese. A Lima abbiamo incontrato al volante di un’auto sgangherata un Tripadvisor portatile e interrogabile a piacere. Ci ha raccontato della nuova ondata di buona cucina e bei ristoranti che sta invadendo il paese. Dello chef Gaston Acurio, amatissimo, popolarissimo, onnipresente. Dei limani, che tutti i weekend mangiano fuori. Della cucina peruviana, che è per sua natura fusion, di quella chifa (innesti cantonesi nelle ricette sudamericane), degli spiedini di cuore venduti per strada, con una donna di colore che indossa il grembiule e inizia a sfamare turisti e cittadini in fila. Di tutti i ristoranti più celebri, con un giudizio su menu, servizio, locale, prezzo. Del Pescados Capitales, davanti a cui ci ha lasciato, benedicendo la nostra scelta, e che è uno dei posti migliori in cui abbia mai mangiato all’estero

foto di Mauro Tosca
- Ho fatto un corso di cucina all’estero: data questa nouvelle vague culinaria peruviana, ci siamo lanciati in una cooking class, ovviamente scelta su Tripadvisor. Una bellissima esperienza culinaria, culturale e umana. Delle ricette di Erick, proprietario del Marcelo Batata, parlerò su Cantarelle, ma la visita al mercato di Wanchaq completamente privo di turisti, dove grasse signore col cappello a cilindro ci hanno fatto assaggiare mille varietà di frutta; la spiegazione dei più gustosi o buffi prodotti della terra peruviana; i bicchieri di pisco che ci siamo scolati durante le ore di corso; l’emozione di cuocere le nostre creazioni nella cucina di un ristorante a pieno regime, sono esperienze che consiglio a tutti, a prescindere dalla voglia di imparare a cucinare

foto di Mauro Tosca
- Ho visto Saturno: a Cusco, che è probabilmente la città più bella e divertente in cui sia mai stato fuori dall’Europa, ci siamo fatti tentare dalle mille possibilità di svago che esistono anche a 3.300m. Abbiamo visitato un buffo planetario, gestito da una giovane coppia, che con mezzi un po’ artigianali e molto brio ci ha spiegato le conoscenze astronomiche degli Inca, il ruolo delle stelle nelle loro vite e ci hanno mostrato l’altra metà del cielo. L’enorme forma dello Scorpione. La “vicinissima” Alfa Centauri. E gli anelli di Saturno, che sono incredibilmente proprio come li disegniamo da bambini
- Ho fatto scelte di turismo responsabile: quando ho potuto, ho contattato organizzazioni e progetti che tutelassero i lavoratori locali e sostenessero progetti umanitari. Ecco perché per il Salkantay Trek ci siamo affidati a Perù Etico, dove Paola, una ragazza italiana, segue progetti per i bambini di strada e le donne che subiscono violenze. Abbiamo pagato una quota associativa di 20dollari a testa e le abbiamo affidato, con grande soddisfazione, l’organizzazione del trekking. La Piccola Locanda, l’hotel in cui hanno sede, è tra l’altro un posto molto piacevole e accogliente. Noi per dormire a Cusco abbiamo scelto il Ninos Hotel, progetto alberghiero di una signora olandese che con i suoi proventi aiuta i bambini di strada garantendo loro un’educazione

foto di Mauro Tosca
- Ho aspettato che i mezzi di trasporto fossero pieni per partire: la prima volta ci è successa con il minivan da Cusco a Pisac. Siamo saliti, l’autista ci ha contati e ha visto che rimanevano 3 posti, o meglio 3 spazi fisici per altre persone. Ha spento l’auto ed è andato in strada a raccattare altri passeggeri. Solo quando il minivan era al completo, siamo partiti, con sottofondo di musica latina offerto dalla “radio diferente para gente inteligente“. La seconda volta, a Colcamayo, è stato uno di quei viaggi che fanno il viaggio. Siamo partiti in 4 con destinatione Hidro. Finalmente un bel viaggio comodo, un pullmino da almeno 10 posti, l’ideale dopo le terme. Poi arriviamo a Santa Teresa e iniziamo a girare cercando qualcosa, facciamo allegramente il giro di una piazza contromano, ci fermiamo davanti a una casa dove l’autista scende e citofona. Risale e finalmente abbiamo una direzione: un altro pullmino, con dentro 2 passeggeri, su cui ci invitano a salire. I due autisti si mettono d’accordo, noi paghiamo il primo (ci possiamo fidare o ci inganneranno? Alla fine la risposta giusta è stata sempre la prima), pronti, via. Per modo di dire. Il secondo pullmino inizia il giro del paese (in realtà i 2 passeggeri ci avvertono che loro sono già lì da mezz’ora…), con un bambino affacciato al finestrino a gridare “Hidro! Hidro!”. Alla fine raccattiamo una varia umanità, ma niente, non siamo ancora pieni. Non ci resta che dedicarci al trasporto merci. Ci fermiamo davanti a un negozio e carichiamo acqua, coca-cola, frutta e confezioni di Inka Cola. Durante uno di questi spostamenti collettivi abbiamo incontrato 4 americani imbufaliti perché il mezzo aveva 45minuti di ritardo e protestavano al grido “people have plans, people have agendas”. Come ogni anno, la mia agenda l’avevo lasciata a casa.
- Ho visto Machu Picchu: sì, è una delle meraviglie del mondo “moderno” e non ho nient’altro da dichiarare

Su Flickr ho pubblicato un set delle foto di viaggio.
Su Google Maps, l’itinerario e informazioni pratiche di viaggio.
View Perù 2012 in a larger map
Se sei stato anche tu un bambino che non mangiava tutto, ti sei sicuramente procurato sgridate e castighi, ma soprattutto prima o poi hai pensato “quando sarò grande mangerò solo quello che decido io e saranno cotoletta e patatine tutti i giorni”. La cosa meravigliosa è che poi cresci e scopri che hai ignorato cibi meravigliosi per anni e senti di poterli mangiare compulsivamente perché devi recuperare gli arretrati.
Recentemente mi è scattata la passione per la zucca (quanti autunni di giovinezza buttati!) e soprattutto, dopo un viaggio in Islanda, anche per quello sconosciuto del rabarbaro: in quest’ultimo caso devo dire che non è propriamente un alimento frequente sulle tavole dei bambini romagnoli.
Un giorno, mentre ci dirigevamo al Landmannalaugar, siamo finiti in questo ristorante islandese immerso nella tipica natura incontaminata, con i tipici cavalli a zonzo, con la tipica mostra audiovisiva sui vulcani e la tipica cameriera/cassiera/bigliettaia sorridente e un po’ svampita. Arrivati al dolce, la bionda indigena ce li elenca e molto molto timidamente ci dice che, se può consigliare, lei prenderebbe *qui viene pronunciato qualcosa di incomprensibile*, perché è un dolce tipico. Ci gustiamo una specie di crostata scura con una marmellata che non riconosco, non troppo zuccherina, tutta circondata di panna. Vediamo la cameriera/cassiera/bigliettaia gironzolarci intorno, con quel modo che hanno i timidi di fare capire che vorrebbero dire qualcosa. Le ci voleva un sorriso per venirci a chiedere com’è, che ne pensiamo, perché ecco l’ha fatta lei, è proprio il vero dolce islandese con la marmellata di rabarbaro di cui sono orgogliosi.
Io, che non aspettavo altro che di innamorarmi di un nuovo cibo, ho poi passato tutta la vacanza a mangiare ildolcedalnomeimpronunciabile che indicavo miseramente con il ditino quando lo vedevo in vetrina; alla fine in un altro piccolo paesino (si possono chiamare paesino quattro case sparse, una tavola calda, un fiumiciattolo e tanta natura?) mi sono fatto scrivere il nome sul retro di uno scontrino – Hjonabandssaela – e ho comprato due vasetti di marmellata per rifarlo a casa.
[E meno male che l’ho fatto! Pare che in Italia la marmellata di rabarbaro sia come il buon senso o il biondo naturale: c’è chi ce l’ha, ma non è così facile da trovare e spesso sotto si cela l’inganno. Dato che i vasetti stanno finendo, se qualcuno sa dirmi dove procurasela, suo è il regno dei cieli e anche una fetta di torta.]
Dopo varie letture online, ho provato a rifare la Hjonabandssaela, che significa dolce della felicità coniugale, ed è venuta proprio bene. La ricetta che ho seguito è un misto di quella “originale” trovata online e di aggiunte personali ispirate alla Linzer:
200g di fiocchi di avena
100g di farina 00
100g di farina 0
100g di zucchero di canna
mezzo cucchiaino di bicarbonato
un cucchiaino di lievito per dolci
125g di burro morbido
1 uovo intero
1 tuorlo
marmellata di rabarbaro (quanta ne trovate…)
Come si fa?
Prima ho messo in una larga ciotola tutti gli ingredienti secchi (avena, farine, zucchero, bicarbonato, lievito) e ho mescolato con le mani, perché c’era scritto così e perchè a me piace toccare gli ingredienti.
Poi ho tagliato a pezzetti il burro morbido e ho amalgamato il tutto, creando un impasto sbricioloso. Infine ho aggiunto l’uovo intero e il tuorlo con cui ho compattato tutti gli ingredienti, facendo una palla compatta.
Ho imburrato e infarinato una teglia da crostata di 22cm, ho tagliato 2 terzi della pasta e l’ho stesa lì dentro direttamente con le mani. Poi ho spalmato la marmellata di rabarbaro, leccando più e più volte il cucchiaio, e alla fine ho creato delle listarelle tipiche da crostata con la pasta rimasta. In alternativa si può anche sbriciolare sopra il rimanente impasto, tipo crumble.
Ho cotto il tutto in forno ventilato a 200gradi per circa 20 minuti: basta controllare quando la pasta diventa scura e togliere prima che si bruci.
Essendo una torta non particolarmente dolce, si accompagna molto bene alla panna o al gelato.
Quando la offrirete agli amici, siete liberi di chiamarla Hjonabandssaela, oppure dolce delle felicità coniugale, oppure torta al rabarbaro di Maurizio.

la ricetta in immagini
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