Elenco di persone che ho incontrato in Birmania
Quando sono arrivato in Birmania non avevo nemmeno un’immagine nota davanti agli occhi. Tutto quello che avevo in mente erano la foto di The Lady e i disegni verdastri sulla pagine di Delisle, le sue camminate col passeggino tra file di monaci, vicini curiosi ed esotiche pagode. Ammetto che per un po’ ho faticato a formarmi un’idea visiva del posto che stavo attraversando. Le città non aiutano: Yangoon è una capitale confusa attorno a una bellissima pagoda, di Mandalay, nonostante il nome poetico, ho un ricordo rumoroso e afoso. Nemmeno il cibo aiuta a sentirsi parte di un luogo: non c’è nessun particolare odore evocativo e colore dominante, tanti curry tutti uguali, con alcune oasi di piacere che ricordo con affetto, ma che sembrano quasi decontestualizzate. Poi ho iniziato a sentire la forza delle persone che incontravo, dei volti che rendevano i luoghi diversi da come li stavo vedendo, delle parole che mi aprivano a nuove idee e nuove immagini.
Golden Rock, 22 dicembre, i pellegrini che volevano una foto: Siamo in un luogo sacro, frequentato quasi solo da buddhisti che si accampano lì tutto il giorno a non fare praticamente niente, se non ad ammirare la Roccia d’Oro e ad attaccare fogli d’oro sulla sua superficie. Ci sediamo sui gradini sotto la roccia, dove quasi tutti scattano fotografie per immortalare l’oro contro il verde delle montagne. Un ragazzo birmano, di qualche etnia che non distinguiamo, alcuni gradini sotto di noi si sta facendo fare una foto dagli amici. Si sposta un po’. Poi un altro po’. Ci accorgiamo che si sta spostando lentamente per fare sì che anche noi siamo nella foto. Sorridiamo al fotografo. Tutti gli amici iniziano a saltellare entusiasti. Il più coraggioso inizia a salire verso di noi e tutti gli altri gli vanno dietro. In 5 secondi siamo circondati da una decina di ragazzi. Lo dico con onestà, sono così brutti con i denti rovinati e rossi, l’odore incredibile di Betel, i vestiti di una finta marca italiana, Giorenzo, con loghi e scritte giganteschi. Se qualcuno mi taggasse su Facebook dovrei disiscrivermi. Si stringono intorno a noi, ci abbracciano, cambiano posizione e ognuno vuole la foto con il suo cellulare. Qualcuno parla un po’ di inglese e ci chiede da dove veniamo. Ah, Italy! Totti. Sì, Totti. In alto le persone strofinano l’oro sulla roccia e lasciano cadere piccoli fogli colorati.
Bagan, 28 dicembre, il signore che avvolgeva la lacca: Ci fermiamo con la bici davanti a uno negozio che vende lacca. E’ buio, dentro ci sono pochi turisti, nel retrobottega alcuni uomini fumano, altri sono davanti a un piccolo televisore a guardare un vecchio film americano, alcune donne bevono the. Il proprietario del negozio prende i nostri vassoi, si siede per terra e inizia ad avvolgere tutto nella carta. Dietro di lui c’è un grande paravento con l’immagine di Aung Sang Suu Kyi: è giovane, sorride, ha un fiore nei capelli. Il signore ci guarda, ci dice che The Lady è la speranza della Birmania e che è emozionato per le elezioni che ci saranno. Gli chiedo se Suu Kyi potrà vincere e lui mi dice che si sono inventanti una legge per non farla diventare primo ministro: nessun primo ministro può essere sposato con uno straniero e lei è vedova di un inglese. Ha gli occhi pieni di speranza e la voce di un disilluso. Sul paravento è appeso un cartello: “Please, no photos”.
Kalaw, 30 dicembre, la monaca che preparava l’aperitivo: Non è una delle principali attrazioni del posto, ma andiamo al monastero solo perché a Kalaw non c’è molto da fare nell’attesa del trekking. E’ fine giornata, il pavimento su cui dobbiamo camminare è freddo, ci sono vari cani che dormono, la porta è chiusa. Una signora ci vede e ci fa conduce fino a una porta aperta. Entriamo nella pagoda. Sulla destra un monaco fa esercizi spirituali. Una coppia di birmani con un bambino è seduta a terra a pregare. Sulla sinistra ci sono 3 donne che parlano animatamente, una è una monaca con davanti una scodella di riso, cibo e the. Ci invitano a sederci. Appena lo facciamo la monaca riempie alcune ciotole a una signora ce le porta. Non sappiamo bene cosa dobbiamo fare, la monaca ci fa capire che possiamo stare lì con loro tranquillamente, finché ci va. Beviamo il the, stiamo in silenzio un po’, senza fare nulla. Non stiamo meditando, stiamo semplicemente godendo della quiete di fine giornata. La monaca in realtà non smette mai di intrattenere le signore intorno a lei, deve avere tra le mani una storia piuttosto divertente. Sulla sfondo la statua del Buddha nella posizione del loto e la solita incredibile corona di luci colorati, intermittenti e sfarfallanti che sono la cosa meno sacra che ho mai visto in vita mia.
Lago Inle, 1 gennaio, la donna che illuminava il lago: Un uomo e sua moglie sono fermi al porto del lago Inle e offrono trasporti in barca ai turisti. Lui diventa il nostro pilota per due giorni, con le sue battute in inglese stentato, i suoi pisolini mentre ci aspetta e i denti rossi per il betel; lei risponde al telefono, contratta i soldi e organizza tutto. Abbiamo fatto tardi e dobbiamo tornare in albergo, in mezzo al lago. Per qualche soldi in più ci fanno fare anche quest’ultima tratta. Non c’è nessuno nel lago di notte, il silenzio è totale, come il buio. Lui si mette dietro, al motore, lei davanti con una torcia illumina il lago, dove di notte salgono in superficie nuvole di alghe che possono bloccare le barche. Siamo tutti avvolti da coperte, noi guardiamo le stelle così grandi, loro il lago. Lei si volta verso di noi, e con la torcia illumina una casa sulla riva. E’ la nostra casa, dice allegra, è in costruzione, la stiamo ingrandendo. E’ una casa come tante, ma la illumina a lungo, muovendo la torcia per farcela vedere bene. Il marito rallenta un po’ il motore e in tutto quel lago meraviglioso è l’unica cosa che ci chiedono di guardare. Sono orgogliosi di avere una casa che sta diventando più grande. Più avanti finiamo in un banco d’alghe, lei prende un remo e le sposta un po’ alla volta, mentre lui alza il motore e rema per farci uscire da lì.
Lago Inle, 3 gennaio, il ragazzo che aspettava l’autobus: Siamo fermi su una strada che non conosciamo, in mezzo a decine di turisti con in mano il biglietto di un pullman e altrettanti birmani con diversi biglietti. La strada è buia e polverosa, i pullman arrivano, si fermano un paio di minuti, bisogna controllare che abbiano lo stesso nome che c’è sul biglietto e si sale. Accanto a noi c’è un ragazzo birmano, vestito come un occidentale, che ci guarda e sorride. Siete italiani? Sì, ragazzo, capisci l’italiano? Ho avuto un ragazzo italiano. Così, in un posto che dovrebbe essere una fermata di pullman e in realtà è solo una strada, questo ragazzo ci dice una cosa di sè che mi sembra così decontestualizzata. Si può parlare di omosessualità in Birmania? Se ti sente qualcuno, è un problema per te? Il ragazzo è nel nostro stesso pullman, seduto una fila davanti a noi, si gira spesso, sorride quando dividiamo le cuffie per ascoltare musica, ci traduce quello che dice l’autista e l’improbabile hostess. Quando scendiamo per cenare ci dice che lui studia, è di Yangon, sta girando il paese come turista, il ragazzo era di Roma, gli piacerebbe tanto venire in Italia: he liked me so much. Ci chiede se vogliamo fare colazione insieme quando arriviamo a destinazione. Poi noi arriviamo a destinazione prima di lui e ci dicono di scendere. Ci guardiamo dispiaciuti. E’ l’alba, sorride un’altra volta e poi torna a dormire.
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