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L’anno scorso ho avuto la brillante idea di mettere il mio buon vecchio Nokia in lavatrice e stranamente non è sopravvissuto: superato il lutto ho fatto il salto verso uno smartphone pensato più per connettersi che per telefonare e un po’ alla volta ho iniziato a modificare alcuni comportamenti. Ad esempio bevendo il caffè a tavola una volta sfogliavo un quotidiano o una rivista e mi aggiornavo su quello che succede nel mondo, mi soffermavo su qualche approfondimento, curiosavo nella posta dei lettori (sempre amata). Ora mi capita molto più spesso di muovermi tra le applicazioni dell’iPhone e leggere gli status su Facebook, controllare cosa condividono i miei contatti su Twitter o mettere like su Instagram.
Idealmente ho la possibilità di fare le stesse cose di prima utilizzando un diverso supporto e anzi ho davanti a me una maggiore varietà di contenuti fruibili e quindi di scelta. Di fatto, però, il modo in cui questi contenuti sono offerti, i luoghi in cui sono disponibili e le possibilità di condivisione degli stessi influenzano in modo non neutro le mie capacità di conoscerli.
Come l’esploratore che si trova in mare aperto ha bisogno di una bussola per orientarsi, cerca nel cielo punti di riferimento e controlla la rotta giusta nelle mappe di chi ha navigato prima di lui, così online noi abbiamo bisogno dei motori di ricerca per trovare quello che vogliamo, selezioniamo nei feed i nostri punti di riferimento e controlliamo sui social network quello che segnalano gli altri.
Uno dei motivi per cui mi sono appassionato a Facebook, Twitter e Friendfeed è il loro possibile utilizzo come filtro sociale delle informazioni: non riuscendo a controllare sempre tutto, faccio in modo che gli altri mi aiutino a capire cosa è rilevante con le loro selezioni condivise, lasciando il resto in secondo piano. E già potrei chiedermi: ma è vero che non riuscirei a controllare le informazioni altrimenti o piuttosto ho trovato un modo più comodo (pigro?) per riceverle e quindi mi affido a questo?
Se il mio accesso alla rete oggi parte dai social media, questo significa che i media guidati dalle relazioni hanno assunto un ruolo primario rispetto ai media guidati dai contenuti: attraverso i contatti sociali io vengo comunque a conoscenza di contenuti interessanti, ma è come se non fossero più questi ultimi a muovermi, bensì le persone che conosco, le persone che in larga misura la pensano come me, quelli che secondo qualche algoritmo potrei volere seguire.
Con quali conseguenze sulla mia capacità di conoscere davvero qualcosa di nuovo o di essere educato a diversi modi di pensare? Si potrebbe dire che anche i quotidiani e i magazine che scelgo sono quelli più affini ai miei gusti e dove in parte so cosa troverò. Una testata stampa, però, non viene fortunatamente scritta per me, non lascia che io selezioni già a monte quello che voglio, non è personalizzabile diversamente da me o da mio padre, ma prende delle decisioni che non mi considerano e che quindi possono portarmi dove non pensavo di arrivare, e soprattutto dove non sapevo di volermi spingere. Paradossalmente proprio su internet, proprio sul medium che mette allo stesso livello tutte le informazioni e le rende potenzialmente disponibili, ho il timore di perdere quello che non so di non sapere, ma che non di meno può completare il mio modo di pensare.
Le statistiche dicono che i social plugin di Facebook hanno aumentato il traffico dei siti di news: le persone vengono a conoscenza di ciò che succede dai propri contatti e poi vanno a leggere la fonte segnalata. Quando Facebook diviene il mio primo accesso all’informazione e la mia agenda è dettata dagli share e dai like, quante probabilità ho di conoscere quello che non avrei cercato? Anche perché esistono contenuti a cui più facilmente si mettono like e che più narcisisticamente si condividono e non sono necessariamente quelli che meritano la prima pagina: se pensate agli ultimi like che avete messo, sono probabilmente riservati a una bella foto di amici o a una vittoria della squadra del cuore (o del candidato politico per cui avete votato voi e molti dei vostri amici) che non alle notizie sul debito greco o sugli sbarchi a Lampedusa.
In tutto questo anche Google sta arricchendo la ricerca di una presunta “intelligenza sociale”col suo +1 button, dando la possibilità di mostrare nei risultati quello che i nostri amici hanno giudicato rilevante: comodissimo (pigro?), ma a che prezzo? Già ci suggerisce, mentre scriviamo, quello che forse vogliamo cercare in base alle ricerche degli altri, togliendoci, se ci facciamo tentare, anche la serendipity dell’errore.
Qualche giorno fa ho letto un interessante articolo del Guardian in merito all’impatto negativo che gli strumenti di personalizzazione delle informazioni online possono avere sul nostro grado di conoscenza complessiva: è come se le aziende, attraverso i loro algoritmi (espressione matematica dei loro desideri), prendessero al posto nostro delle decisioni di cui non sempre siamo consapevoli, ma che potenzialmente restringono il nostro orizzonte. L’articolo inoltre riflette sull’impatto sociale di questi tool di personalizzazione: oggi il capitale di conoscenza orientato al gruppo (“bonding”) sta avendo il sopravvento sul capitale di conoscenza che si forma quando si incontrano persone con diversi background (“bridging”) e questo può danneggiare il nostro senso del sociale, del pubblico inteso come luogo in cui affrontiamo problematiche che esulano dai nostri interessi.
È come se a un certo punto il web fosse diventato troppo esteso e confuso per le nostre capacità di orientamento, per cui sta divenendo più importante la bussola dell’esplorazione e ci vengono offerti strumenti sempre più sofisticati, personalizzati e condivisibili.
Ecco, ero lì che mettevo like su Instagram e mi sono chiesto: se quello che veniamo a conoscere non è guidato primariamente dai contenuti ma dalle relazioni, questo filtro sociale alle informazioni amplia la nostra conoscenza o al contrario la restringe in un recinto più rassicurante?
Forse, come dice in un bellissimo articolo Franzen sul New York Times, inseguire solo quello che piace è da codardi: occorre avere il coraggio di andare alla ricerca di ciò che può fare male.
La dimensione del gioco attrae da tempo le aziende alla ricerca di nuove modalità per entrare in contatto con i consumatori. Federico Fasce in una presentazione fatta al Game Camp di Riva del Garda sintetizza questa attrazione fatale in 3 motivi: i numeri e dati che tutti i giochi forniscono, la generazione homo ludens che è molto più mainstream di quanto non si pensava frettolosamente anni fa, e la “blissful productivity”, una sorta di impegno produttivo ad alto gradimento.
All’inizio sembrava che l’unica soluzione possible fosse quella di inserire pubblicità all’interno dei giochi, forma di pubblicità che non è mai veramente decollata per i dubbi sulla sua reale efficacia, nonostante esempi illustri, come quello di Obama con Burnout Paradise; altri invece hanno iniziato a produrre i loro propri giochi, nel caso di Burger King con successo, grazie a investimenti cospicui che non tutte le aziende sono in grado o hanno intenzione di intraprendere. Oggi invece l’ultima novità, su cui personalmente scommetterei due soldi in più rispetto all’in-game advertising, è quella di inserirsi all’interno dei social games non tanto come pubblicità, ma come elemento ludico integrato nel gioco. LaFra ha realizzato una presentazione che ben riassume le potenzialità di target, business e advertising di Farmville, il social game di gran lunga più popolare al mondo.
Bene, un paio di settimane fa su Farmville è arrivato uno dei più grandi nomi a livello mondiale, ovvero McDonald’s, con una interessante meccanica di comunicazione. Attraverso la sua fanpage (si chiama ancora così?) su Facebook ha annunciato la creazione di una Farm speciale che sarebbe durata un giorno soltanto. La fattoria era segnalata ai giocatori anche attraverso la label “my neighbors”. Durante questa giornata i giocatori di Farmville hanno potuto coltivare i semi di pomodoro e senape (“scusi, mi può dare il ketchup con il cheeseburger?”), ricevendo in cambio una tazza di caffè, ovvero un super potere per potersi muovere più velocemente all’interno della propria fattoria, e una mongolfiera per abbellire il proprio spazio di gioco.
Leggendo qua e là tra i commenti online alcuni sostengono anche che un’operazione del genere possa aiutare la percezione di naturalità dei prodotti del Mc: personalmente credo sia un po’ troppo sofisticata come conseguenza, anche perchè la maggior parte dei giocatori di Farmville non sono per forza amanti del cibo organico, ma più semplicemente mi ricorda in modo ludico e quindi efficace sia il brand sia alcuni suoi prodotti.
Come ha detto il fondatore di Appssavvy, la società che ha realizzato l’operazione: “McDonald’s on FarmVille represents the re-thinking of the delivery and reception of advertising. Today it is about understanding the social activity taking place and only then figuring out a way to join relevantly through value-added marketing, which McDonald’s has done to perfection.”
Semplice, ludico, social.




Non giochiamo per fare vedere quanto siamo bravi, ma per fare vedere che non siamo così scarsi.
Questo è più o meno quanto ha affermato a proposito di Farmville Brian Reynolds, chief game designer del celebre social games di Zynga, durante il Dice Summit. Reynolds in modo provocatorio ha voluto ribaltare un assunto strettamente legato al gioco: giochiamo per divertirci e più ci divertiamo più continuiamo a giocare.
Niente affatto, quando parliamo di social game, game non è uguale a fun, bensì a embarassement. E lo sostiene uno che ha capito come fare giocare 87milioni di persone (più degli utenti mondiali di Twitter, per intenderci), non una volta, ma nei mesi, e non sono una console, ma su un social-network.
“If I don’t come back, not only do I lose my investment of my time and my gold, but I’m shamed. I look bad in front of my friends when they come to visit my farm… We’re social animals and we don’t want to be shamed in front of our friends”, come riporta Kotaku.
Per capire la sua affermazione proviamo a pensare alle scuole superiori: non tutti hanno avuto la fortuna di essere già popolari, sicuri di sé e capitani della squadra di calcio, la maggior parte di noi si è dovuta arrabattare tra fisici gracili, acne e insuccesso con l’altro sesso. Ecco, secondo Reynolds, una sensazione simile è ancora possibile su Facebook – che non ha caso è nato proprio per tenere i contatti con i compagni di scuola e dove, volenti e nolenti, a tutti sarà arrivata la proposta di una rimpatriata.
Se in casa nostra, con la nostra console possiamo fallire la pista arcobaleno di Mario Kart o continuare a fare mille volte lo stesso errore per finire un puzzle di Braid e nessuno ci può giudicare, Facebook è proprio il luogo online in cui per eccellenza siamo noi stessi, non con un nick ma con un nome e un cognome, con il nostro compleanno, le nostre foto e i like alle cose che ci piacciono, e questa nostra identità online è sotto gli occhi di tutti e ci rappresenta: quindi, chi vuole essere rappresentato da un campo di patate mal coltivato, pieno di erbacce? Forse dedicarsi al raccolto non è così divertente, ma certo mostrare a tutti di non sapere gestire il proprio terreno equivale a inciampare e cadere davanti ai compagni durante la partita di basket a educazione fisica.
Ci si impegna a Farmville soprattutto per evitare l’imbarazzo che può rendere così forte solo un contesto social in cui ci mettiamo la faccia: quando parliamo di social game, “social comes first”.
In definitiva, speriamo che tutti passino sul nostro profilo a vedere quanto è bello il nostro orto per scacciare l’incubo di quei momenti in cui non si veniva invitati alle feste o si finiva vittima del lancio della coca-cola come in Glee:
http://www.youtube.com/watch?v=Zc03jGtOh9I&NR=1
Questo post è pubblicato anche su Invaders Den, uno spazio online in cui riflettere sul panorama ludico, il linguaggio dei giochi e altro ancora.
Ultimamente si è parlato molto dello storico sorpasso di Facebook su Google: certo alcuni hanno fatto notare che la notizia racconta solo una parte della verità, ma è indubbio che ormai il social networking sia una delle principali attività online e che Facebook per molti sia diventato sinonimo dell’interno web.
Questo fenomeno ovviamente interessa molto anche alle aziende che cercano di utilizzare Facebook come piattaforma di relazione e/o comunicazione: se infatti vi sono già meccanismi abbastanza consolidati per il posizionamento su Google, in termini di search engine marketing, per riuscire ad avere visibilità nei profili degli utenti occorre che questi ultimi compino direttamente un’azione per aprire la porta della loro casa, in cui si ritrovano con gli amici.
Alcuni esempi interessanti in questo senso sono legati ai games.
Il primo è Prototype, un action-adventure dell’Activision, uscito da noi lo scorso giugno. Andando sul sito del gioco e utilizzando Facebook Connect si ha una piacevole sorpresa: tra le proprie foto caricate online, ne vengono scelte casualmente alcune che poi sono inserite nel trailer del gioco. Nel trailer personalizzato vengono utilizzate anche le informazioni personali che si sono rese pubbliche su Facebook, aumentando la sensazione di essere veramente parte della storia. Inoltre alcune persone presenti nelle nostre foto vengono praticamente cancellate, coerentemente con la trama di Prototype: il gioco si svolge infatti in una New York infestata da un’epidemia che trasforma le persone in mostri.
Per esempio nel mio caso tra le foto selezionate ce ne è una buffa in cui mimo una scena dell’orrore con una ex-collega (non so se si tratti di fortuna o abilità) e hanno cancellato la faccia di una mia amica mentre ci atteggiamo come i ragazzi di Glee. C’è qualcosa di Scary Movie in tutto questo.
Ovviamente alla fine viene fornita l’opportunità di mostrare ai propri contatti questo video, e trattandosi non di una forma di pubblicità ma di un contenuto di entertainment dove le persone vengono messe al centro dell’azione e dell’attenzione, diventa uno stimolo mostrarlo ai propri contatti ed entrare quindi a fare parte della campagna.

Il secondo esempio è legato al film Tron: Legacy, che racconta la storia di Sam Flynn impegnato nelle indagini sulla scomparsa del padre Kevin, ex dipendente della ENCOM, società per la quale realizzava video games. Trattandosi del seguito di un famoso film degli anni ’80 che ha dato vita anche ad alcuni video game, insomma un classico per nerd di diverse generazioni, gli autori hanno dato vita a un viral game, ovvero una sorta di ricerca di Kevin online basata su tracce e indizi che vengono dati a poco a poco sul sito. Questa operazione ricorderà a molti l’ARG ideato per The Dark Knight.
I progressi nella ricerca del personaggio scomparso possono essere mostrati ai propri amici sempre via Facebook Connect. Personalmente sarei stato fiero di riuscire a risolvere un “livello” tanto bello quanto frustrante (per chi non ci riesce): aggirarsi per una grande città di pixel e riconoscere i 56 video games che si incontrano nel percorso. I vincitori vengono assunti alla ENCOM e ricevono un badge per partecipare a una festa a San Francisco. Come lo so? Perchè qualcuno ce l’ha fatta e giustamente se ne vanta.

L’ultimo caso che mi ha colpito viene invece da Israele e a differenza degli altri non parte da un gioco per arrivare a Facebook, ma usa un gioco di Facebook per portare al prodotto. Si tratta di una campagna per lanciare la variante alle noccioline di uno snack al cioccolato, tale Elite Taami Nutz: Zynga, i creatori del fenomeno Farmville, renderanno disponibile dal 14 aprile il primo raccolto sponsorizzato, proprio quello di noccioline, che finora mancava nel gioco. Oltre ai semi ci sarà anche una sfida in cui si chiederà ai farmer di usare creativamente il raccolto all’interno della propria fattoria.
Per chi fossi interessato, Mashable ha pubblicato anche i prezzi dei semi: costano 20 crediti, si vendono per 78 crediti e il raccolto viene ottenuto in 16 ore.

In sintesi, questi tre esempi mostrano a mio avviso tre vie per essere visibili su Facebook:
- utilizzare il materiale già caricato e generato su Facebook in maniera ludica e personalizzata
- creare dei livelli di sfide progressivi e fornire badge da mostrare
- inserirsi in modo coerente e costruttivo in un contesto già affermato aggiungendo nuove feature
Conoscete altri esempi che ritenete interessanti?






I social games, ovvero i games fruibili su social-network come Facebook, sono uno dei fenomeni di maggiore successo sia dal punto di vista dei giocatori sia da quello della visibilità mediatica.
Recentemente è anche uscita un’interessante ricerca realizzata da PopCap che fa un po’ il punto della situazione in USA e UK e mostra alcuni dati interessanti: i social gamers sono per lo più donne, con un’età media di 43 anni, giocano più di una volta a settimana e più di un quarto di loro ha speso soldi per beni virtuali. Inoltre il social gaming ha rubato tempo ad altri media, come la lettura di magazine o la visione di film in tv.
Proprio qualche giorno fa invece si è svolto a San Francisco il Flash Gaming Summit e tra i vari interventi ve ne è stato uno intitolato “4 Keys to a Successful Game That Every Developer Should Know“.
Raj Dash ha sintetizzato questi 7 fattori chiave:
1) Appealing, e non solo verso i casual gamers
2) Addictive, per fare sì che gli utenti continuino a giocare e non smettano rapidamente
3) Emergent Complexity, la complessità deve aumentare con il crescere dei livelli
4) Mass Marketability, per avere un’audience ampia
5) Monetizable, analizzando metriche come la durata di gioco
6) Rewarding, a livello emozionale e sociale
7) Social, non sfruttando contesti relazionali, ma appunto dando valore aggiunto a questi rapporti attraverso il gioco

Se volete leggere una trascrizione dell’intera sessione, la trovate qui.
Se volete vedere la foto originale, la trovate qui.
Chi non ha mai provato almeno una volta a giocare su Facebook? Citando i più famosi e diffusi, probabilmente vi siete impegnati con Word Challenge, Geo Challenge, Pet Society, FarmVille: se siete curiosi qui trovate una serie di dati giochi più diffusi sulla “console” di Zuckerman. Io confesso di avere avuto un infiammazione alla spalla a forza di anagrammare parole con word challenge per battere i miei contatti Facebook: posso sopportare di essere scarso quando sono solo con la mia console, ma non davanti agli amici. Gli amici vanno pubblicamente battuti, si sa. Tra l’altro la nuova homepage di Facebook rende più evidenti i nuovi giochi disponibili e quelli a cui stanno giocando gli altri.
Il potenziale di diffusione e crescita di questi games è testimoniato anche dall’acquisto di Playfish (autrice di Restaurant City per citarne uno) da parte dell’Electronic Arts. Fin qui però il modello di business di questi games è essenzialmente legato all’advertising che può essere inserito a fine gioco, anche se non so quanto sia stato sfruttato e con quali risultati.
Due recenti casi possono però aprire la strada verso nuove direzioni.
Il primo è uno stimolo della Coldiretti che durante un incontro promosso dai giovani imprenditori ha sottolineato un possibile legame tra il successo di FarmVille e l’aumento di interesse verso la coltivazione diretta. Sempre più giovani e professionisti si stanno appassionando alla coltivazione e gestione di un pezzo di terra (che, come ci ricorda Rossella O’Hara, è sempre una garanzia) attraverso il gioco su Facebook e sono in crescita anche coloro che si danno all’agricoltuta come hobby. Alla coltivazione segue poi, nella maggior parte dei casi, la trasformazione dei prodotti in marmellate, olio, vino, etc… Con questo non si vuole dire che chi gioca a FarmVille vuole necessariamente coltivare della terra vera, ma piuttosto che questi giochi potrebbero rappresentare dei touch point non solo per intercettare generici giocatori, ma per seguire interessi specifici legati al tema del gioco, magari attraverso forme di keyword advertising o sponsorizzazioni.
Il secondo caso viene sempre da FarmVille e riguarda il terribile terremoto che ha colpito Haiti il mese scorso. Zynga, la software house che realizza il gioco, ha realizzato una raccolta fondi facendo acquistare beni virtuali ai giocatori durante il gioco e devolvendo il ricavato allo U.N’s World Food Programme. Come si vede nell’immagine qui accanto la donazione era perfettamente integrata nel gioco e consentiva tra l’altro dei benefit effettivi al giocatore (per esempio aumentare i proprio soldi virtuali).
Zynga ha dichiarato di avere raccolto in 5 giorni 1 milione e mezzo di dollari, che FarmVille da solo ha raggiunto 1 milione e che hanno donato 300.000 giocatori di 47 paesi diversi, come ho già scritto qui.
Certamente l’impatto emozionale del terremoto e il coinvolgimento di una causa no-profit sono due fattori fondamentali del successo dell’iniziativa, ma mostrano anche nuove opportunità di business per le aziende qualora vengano rispettate e anzi valorizzate le dinamiche di gioco.
Come forse alcuni di voi sapranno, a Istanbul (città davvero magica) ho lasciato non solo un pezzo di cuore, ma anche il cellulare, mettendolo in lavatrice il giorno della partenza dall’appartamento. Dato che non amo particolarmente i cellulari – per dire, non telefono quasi mai e mando per lo più sms – invece che comprarne uno nuovo, ho riesumato il mio atavico Nokia 3310, ancora funzionante: ok, la batteria non è solidissima e bisogna premere con decisione lo zero, ma insomma, è una certezza.
Poi su Friendfeed ho iniziato a notare che la 3 sceglieva dei tester per provare l’INQ1, che nella mia mente è il telefono di Facebook, e ho deciso di alzare la manina.
Il prof mi ha chiamato dicendomi di provarlo fino alla fine dell’anno, io ho fatto i compiti e qui di seguito trovate lo svolgimento (nella speranza che il prof decida di darmi i compiti tutto l’anno!).
Packaging: non credevo che avrei scritto qualcosa sul pack, dato che in genere lo prendo-lo apro-ravano dentro-lo metto da qualche parte-me ne dimentico finchè non mi serve il PUK. Invece l’INQ1 vive in una bel cubotto con delle carte che ti spiegano i diversi aspetti del telefono, unendo testo e grafica. Una buona scelta dato che ti evita di dover scartabellare ogni volta il libretto di istruzioni.
Internet: ovviamente la parte più interessante del telefono è la sua connessione a internet e in particolare l’accesso immediato a Facebook. Personalmente non uso moltissimo Facebook – in genere guardo le foto degli amici e faccio i giochi di Playfish – ma in questo mese ho riscoperto l’utilità di potere mandare messaggi ai miei contatti, di inserirli direttamente nella rubrica (soprattutto se considerate che la mia precedente rubrica fa la centrifuga in una lavatrice turca) e di cazzeggiare guardando i loro aggiornamenti.
Direttamente dalla schermo principale si accede anche a Skype, che invece mi è utilissimo, sia perchè mi permette di chattare con gli amici sostituendo molti inutili sms, sia perchè mi ha fatto chiamare alcuni amici all’estero, risparmiando soldi e con una buona qualità della telefonata.
Inoltre sempre sullo schermo principale vi è il collegamento diretto al search di google - fondamentale – e l’aggiornamento meteo, che di questi tempi è più interessante della maggior parte dei programmi Mediaset.
Altri servizi: leggendo un po’ di discussioni su Friendfeed ho scoperto l’esistenza di Snaptu, che si è rivelata un’applicazione utilissima per aggiornare il mio twitter (che mi aggiorna a sua volta Facebook e Friendfeed), ma anche per leggere le news del Guardian, che in effetti leggo anche online, info sui film, notizie da siti come Repubblica e blog come Perez Hilton e il collegamento al mio Flickr.
Pro e contro: a livello di usabilità e navigazione mi sembra un buon telefono, funzionale ed intuitivo (la tastiera è la stessa del cellulare a cui sono abituato), soprattutto se considerate che non ho mai navigato via mobile; un difetto che ho riscontrato è il fatto che ogni tanto si spegne anche se è carico, e devo togliere e rimettere la batteria. In realtà potrebbe essere un problema del mio telefono, e non generale, o un effetto collaterale del gelo di questi giorni 
Per avere una dettagliata descrizione tecnica del telefono, vi rimando al post di Beggi sull’INQ1.
Vi racconto invece due situazioni in cui il telefono mi ha fatto compagnia questo mese: un weekend a San Pietroburgo e una giornata a Roma.
San Pietroburgo: ho avuto la brillante idea di passare il ponte di Sant’Ambrogio a San Pietroburgo, dove ho rischiato di ibernarmi, di crollare alla quinta ora di visita dell’Ermitage e in cui mi sono fatto rubare lo zaino (ne approfitto per dire alla 3 che mi hanno rubato anche il caricabatterie, devo ricomprarlo?
).
Avendo dimenticato la digitale a casa, ho usato l’INQ1 per fare foto in giro per la città e soprattutto nei musei, evitando tra l’altro di pagare il sovraprezzo per le fotografie. Ecco una dimostrazione di me che faccio una foto del risultato:

Per chi volesse vedersi tutte le foto, può farlo qui. Ho fatto il trasferimento da cellulare a Mac via bluetooth.
Roma: ho passato una giornata per lavoro a Roma, la riunione è finita alle 14 invece che alle 17, avevo il treno alle 18 e mi sono ritrovato con 4 splendide ore di cazzeggio. Allora ho mandato un messaggio via Facebook ad un amico di cui avevo perso il numero (ho già detto della lavatrice?), ed ho passeggiato chattando via skype con Candyinprogress, chiedendo consigli in diretta su cosa visitare.
Infine, dato che il treno ha avuto un’ora di ritardo, ne ho approfittato per ascoltare un po’ di musica via Youtube, presente nel menu principale, e in particolare mi sono esaltato con la Cortellesi.
A fine anno resto ufficialmente senza cellulare: torno al mio 3310 o ne compro uno nuovo?
Che Facebook si candidi a diventare una delle prossime console per casual games è già dimostrato dal successo di giochi come “word challenge” o ” geo challenge”: si vede il gioco nel profilo di qualcuno che si conosce o, meglio ancora, si viene invitati in una sfida diretta e per un po’ si trasforma Facebook in una piattaforma di gioco sociale. Playfish è una software house che sta guadagnando proprio dalla popolarità e viralità di questi meccanismi: non si gioca per la qualità, complessità, innovatività del gioco, ma perchè lo stanno facendo i propri amici e perchè ci si vuole posizionare davanti a loro in classifica. Un meccanismo tanto semplice quanto valido.
Bene, ora dalla E3, la più importante fiera mondiale di “electronic entertainment”, arriva l’annuncio che i membri di Xboxlive potranno interagire con Facebook e Twitter direttament dalla console: quindi non solo giocare, ma anche condividere foto e postare tweet.
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