Una nota privata, ai bordi del Natale
Anche se non credo, ogni anno vado alla messa di Natale con famiglia e con parenti.
Mi piace il posto in cui andiamo, è la chiesa di un ospizio, è un luogo piccolo, immediato, privo di trucchi, dove le cose restano con il loro nome, anche se è Natale, e il freddo resta freddo, i vecchi restano vecchi, le suore restano coi baffi e sbagliano gli attacchi dei cori. Mi piace perchè so che nella abitudine dei gesti e delle parole finirò per distarmi e vagare. Mi siedo, dico quello che mi dicono di dire, faccio quello che mi fanno fare; so le parole a memoria, mi ricordo il tempo dei gesti, non serve che mi concentri. Cerco i visi degli estranei attorno a me, mi immagino cosa pensino, mi passano davanti agli occhi i frammenti di un anno, poi dell’infanzia, poi di domani, poi modifico con l’immaginazione le cose che sono già accadute e le immagino diverse, le cancello, le distorco, poi guardo i visi dei familiari e provo nostalgia per le cose che non so più dire, mi accuso di un silenzio che voglio continuare ad avere e che mi fa male e bene allo stesso tempo, poi vedo lei che rappresenta tutto quello che non vorrò mai essere, e lui che rappresenta ciò che temo di diventare, e loro, con il loro tradimento e i loro inganni, con il piccolo che ride e che li fa ridere e penso che l’amore è imperfetto e questo è tutto quello che riesco a pensare sull’amore.
Stringo la mano, non do soldi, non mi comunico, a volte intercetto note, mi dedico quest’ora ogni anno in cui non sono nè me, nè amante, nè amico, nè figlio, nè parente, nè ateo, nè credente, sono solo immaginazione senza conseguenze.
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