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In un bellissimo caravanserraglio divenuto albergo abbiamo trovato un questionario dell’Università di Teheran sui motivi che spingono le persone a visitare e non visitare l’Iran come metà turistica. Accanto a quelli più ovvi come “si sta allentando la tensione con gli USA” oppure “le donne sono obbligate a coprirsi il capo” uno mi ha particolarmente colpito: “penso che viaggiare in Iran mi dia status”.
L’Iran evoca immagini che ti fanno sentire un viaggiatore non banale: meta poco esplorata e civiltà millenaria, rozzi uomini politici e raffinati registi o scrittori, confusa zona del mondo in cui non si capisce mai chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
In realtà l’Iran è un paese che prima di tutto mi ha sorpreso, ha preso le mie idee e le ha lentamente cambiate, mi ha dato status senza che me lo meritassi veramente.
Non bisogna dare retta agli sconosciuti con la barba nera:
Entravamo nelle moschee con la prudenza di chi non conosce le regole, sapendo solo di doverci togliere le scarpe. Pensavamo di dovere stare muti e contriti e di generare comunque un po’ di sospetto con le nostre facce bianche. Si è avvicinato un signore di mezza età, vestito di scuro, coi baffi e la barba, un classico caratterista musulmano di qualsiasi serie tv. Ci ha chiesto se conoscevamo la Moschea di Yazd e se poteva avere l’onore di spiegarcela. Attorno a noi sono arrivate una decina di persone, tra adulti e bambini: erano la sua famiglia. Ci andava di fare un giro con loro per la città di notte? La moglie della nostra guida era molto elegante, i bambini ridevano di gusto, i ragazzi più grandi volevano fare vedere di sapere parlare bene l’inglese, ma senza correggere i genitori, per rispetto. Ci hanno portati a spasso in una città affasciante e labirintica, tutta costruita col fango, tra torri del vento, vie buie, piazze con giochi arrugginiti e porte da calcio. Quando dovevamo entrare in qualche monumento andava avanti la signora per dire al bigliettaio che noi eravamo loro amici e farci entrare gratis come gli iraniani.
Erano una famiglia metà iraniana e metà irachena, la guerra del golfo li aveva divisi e da allora le giovane generazioni non si erano mai conosciute, fino a quella sera a Yazd, che loro hanno voluto condividere con due italiani, parlando inglese, arabo e Parsi.
Alla fine ci hanno salutato così: “ma voi avete Facebook? Allora possiamo diventare amici?”.

Prigione di Alessandro
In Iran sono tutti fanatici religiosi
In taxi, nei ristoranti, per strada, in casa varie persone ci hanno chiesto se eravamo religiosi per poterci dire che loro no, non lo erano. Ne ricordo una.
Una signora coi capelli bianchi, verso i 60 anni, elegante. Parlava un bell’inglese perché prima del ’79 aveva amici americani. Aveva una forte passione per la musica e mi ha insegnato il modo in cui gli iraniani schioccano le dita per accompagnare i balli. Eravamo in una casa privata e quindi abbiamo potuto ballare. Io imbarazzato e goffo, lei soddisfatta e sinuosa. Mi ha confessato di quanto le piaccia ballare, ma che ora può farlo solo in casa: anche ai matrimoni uomini e donne festeggiano separati. Mi ha raccontato di quando era giovane e andava al mare in costume, insieme a sua madre, e ora non più. Mi ha detto di essere atea e di quanto sia difficile vivere in un paese che ti proibisce di fare qualcosa che ami in nome di qualcosa a cui non credi. Mi ha confidato che gli Iraniani vivono una vita pubblica che è quella che ci aspettiamo noi Occidentali e il loro Governo, e una vita privata dove bevono alcol, ballano e indossano pantaloni corti. Va tutto bene, purché non si veda fuori e non si pretendano diritti. Nel mio piccolo ho sentito che avevamo in comune più di quanto io e lei ci saremmo aspettati, con la sola differenza che di noi due solo lei sapeva ballare.
Le donne musulmane non ti rivolgono la parola:
La tomba del poeta è uno dei luoghi più amati dagli iraniani. Anche chi non abita a Shiraz ti chiede se ci sei già stato e ti invita a farlo il prima possibile. Si tratta di un semplice e bel giardino, con piante, alberi, panchine e al centro una pietra commemorativa di questo poeta edonista.
Dal tramonto centinaia di iraniani si riversano nel giardino a trascorrere la serata, passeggiata, leggendo i versi di Hafez e scattandosi foto improbabili. Tra i giovani il selfie con la tomba va fortissimo.
Siamo rimasti un po’ distanti a guardare questi momenti quotidiani e speciali allo stesso tempo, quando si sono avvicinate due ragazze, molto belle e eleganti e ci hanno, come diremmo noi, abbordato. Ci hanno tempestato di domande (la più frequente domanda in tutto il viaggio è stata “ma cosa si dice da voi degli Iraniani? Pensate che siamo tutti terroristi?”) e ci hanno detto che per loro è una fortuna potere parlare con degli stranieri e esercitare l’inglese. Quando ci hanno invitati ad andare a cena con loro, abbiamo pensato che va bene sfatare i cliché, ma qui si esagera. Non sono passati più di cinque minuti che è arrivata un’altra ragazza con la madre e ci ha chiesto se eravamo francesi. No. Sapevamo parlarlo? No. Avevamo notato qualche francese? Lei voleva tanto esercitare un po’ di conversazione, per caso noi eravamo stati a Parigi?
E siamo passati la sera così, tra persone che si scattavano foto ricordo, giovani che cercavano stranieri per fare lezione in una calda notte estiva.

Giardino Botanico a Shiraz
Gli Iraniani sono nemici dell’Occidente:
Una volta una persona mi ha detto che c’è più differenza tra un ventenne inglese e un quarantenne inglese (con buona pace dei quarantenni giovanili) che non tra un ventenne inglese e un ventenne russo.
Diciamo che c’è un periodo nella vita in cui diventa molto importante avere la scritta giusta sulla maglietta, il brand che ti fa sentire figo, il simbolo che ti fa appartenere a un mondo. Non essendo dotati di un verso per segnalare la disponibilità all’accoppiamento, dobbiamo scriverci delle cose addosso e sperare che parlino la lingua corretta. Ecco, se sei un giovane iraniano e intorno a te c’è l’embargo dei prodotti occidentali è un bel problema, ma crea anche le soluzioni più divertenti che ti capita di vedere in giro.
Ho visto un gruppo di ragazzi chic e tecnologicamente evoluti vestiti con il celebre brand: Giorgio Armani, www.giorgio.it, perché è il sito che fa la differenza
Altri, sempre spendaccioni ma con l’anima sportiva, avevano la famosa tuta: Giorgio Armani Adidas oppure Giorgio Armani Nike, perché gli iraniani conoscono il valore della democrazia.
Adidas tra l’altro produce in Iran una linea che non conoscevo, la Saltimbanco, con una scritta che occupa due righe e dice “The only fashion shaoyu design vershion brand for Sports Medicine & Orthopaedics”. Giuro.
Alcuni, più hipster, fanno meno sfoggio dei global brand, ma si giocano frasi accattivanti come il gaudente “Work Hard, Part Harder”, che temo significhi qualcos’altro rispetto a quello che immagino, l’esortativo “Be Shart”, volentieri se mi dici come, o il metafisico “I can’t stop living you”, con accanto tra l’altro l’immagine di una bici.
Ma la più misteriosa di tutte è questa, se qualcuno ha idea di cosa significhi, gli sarò infinitamente grato

T-Shirt Fly Vivere a Kashan
Non posso garantire che chiunque vada in Iran veda le stesse stranezze e vivere le stesse emozioni, ma questo è il percorso che abbiamo fatto noi, con indicazioni di mezzi di trasporto, alberghi e ristoranti.
Tracciare una mappa dei luoghi in cui si è stati è un po’ come rivivere il viaggio.
Creare la mappa della Birmania è un po’ come rivivere il senso di smarrimento del viaggio. Ho provato a cercare hotel in mezzo all’acqua, templi in mezzo ai monti, fermate del pullman in mezzo al nulla: alla fine mi sono dovuto rassegnare a piazzare i marker dove più o meno me li ricordo. E’ comunque molto di più di quello che sapevamo noi quando siamo partiti e quindi spero sia utile.
Potrei avere sbagliato di qualche chilometro, ma in Birmania non bisogna avere troppa fretta, o bisogna sperare che gli orologi funziono tutti allo stesso modo.

“
London for One” è una sorta di guida che ho creato per chi si trova a Londra da solo e non vuole rinunciare a godersi la città tra visite, passeggiate e soprattutto ristoranti.
Quando si viaggia in compagnia non è difficile trovare consigli su ristorantini a lume di candela per due, su posti in cui fare baldoria con amici, su ambienti family-friendly.
In città come Londra, però, ci si trova spesso per piacere o per lavoro o per casualità anche da soli. Perché dobbiamo restare in albergo a guardare un po’ di TV o cenare nel primo ristorante dietro l’angolo invece che nel migliore?
Stando a Londra vari mesi per conto mio mi sono accorto che non tutti gli ambienti sono adeguati a una persona da sola e ho iniziato ad appuntarmi quelli in cui mi sono sentito a mio agio a leggere, a mangiare, a camminare, a perdere tempo.
E’ una lista personale, incentrata sulla zona in cui ho vissuto e lavorato, con una particolare attenzione ai ristoranti, che sono spesso la situazione più “imbarazzante” per chi vuole mangiare bene, ma non ha compagnia.
Ho consigliato anche alcuni posti come i musei che sono naturalmente adatti ai viaggiatori solitari, ma li ho selezionati pensando ad altri luoghi a loro vicini e che possono facilmente abbinati, come caffetterie e parchi.
Mi piacerebbe continuare ad arricchire questa guida anche in futuro, raccogliendo anche i consigli di altri viaggiatori.
London For One è su Everplaces, un bellissimo servizio di localizzazione che ho conosciuto grazie all’esimia Tostoini.
Scena tipica delle mie giornata londinesi: vari Italiani intorno a un tavolo, varie quantità di alcol di varia provenienza – dal Pimm’s al prosecco al sidro alla birra al vino – l’occhio acuto e la lingua tagliente nel giudicare gli inglesi che ci circondano. Si parla di persone, trasporti, culture, tempo libero, ristoranti, l’essere giovani, l’essere vecchi, l’umidità, i topi, le zanzare, la vita. Si confrontano città, si cerca il posto giusto in cui stare, almeno per un po’. Questo post è una sfida tra Milano, la città in cui per ora risiedo, e Londra, città in cui ho vissuto per 4 mesi, in cui si prendono punti in categorie completamente casuali, soggettive e arbitrarie, e in quanto tali infallibili. Diffido di chi sceglie le proprie città elettive basandosi sulla ragione.
Tutti nudi, ma non troppo: segna Londra con pudore
La presenza di un qualunque estraneo (se non proprio di un qualunque essere umano) rende l’inglese estremamente cauto e incredibilmente goffo. I contesti in cui si è forzati a stare a contatto con gli altri e in cui non si beve alcol sono dei piccoli grattacapi sociali. Prendiamo lo spogliatoio di una palestra, dove bisogna stare a contatto con estranei discinti e sudati. Sembra che agli italiani appena entrati nello spogliatoio i vestiti esplodano di dosso: le persone fanno infinite camminate nudi salutando a destra e sinistra come sulla Croisette, si pesano come davanti a nostro Signore e con dietro tutti gli altri, si contemplano, si analizzano e perlustrano senza problemi allo specchio, soprattutto fanno amabili chiacchierate in presenza dei rispettivi augelli. Lo spogliatoio inglese al contrario sembra il Cirque du Soleil degli acrobati con l’asciugamano, è la gara a chi mostra meno carne, si indugia molto meno tra le rispettive nudità e tutto viene svolto molto in fretta evitando il più possibile il contatto visivo. Non credo sia una differenza di disinibizione sessuale, piuttosto noi siamo una cultura di narcisismo fisico e quindi sbattiamo in faccia a chiunque l’orgoglio del nostro corpo, mentre per gli inglesi è meglio abbandonare alla svelta un campo minato di corpi e interazioni. Preferisco contemplare i risultati dello sport a casa e avere da condividere un luogo più sereno per timidi, complessati, minoranze.
Le mie prove sul campo: Regent’s Health Club e Get Fit di via Piacenza.
Interessarsi agli estranei: segna Londra, Milano colpisce un palo
Quando si fa turismo a Londra bisognerebbe stare seduti un’ora su una panchina e godere lo spettacolo della varietà di persone che ti passano costantemente sotto gli occhi. Sessi, razze, gusti, stili, atteggiamenti, culture, storie. Stare in mezzo alla gente a Londra è di per sé una ginnastica mentale che richiede di abbandonare i pregiudizi, di limitare le aspettative e di lasciare che ognuno parli per se stesso. C’è molta vitalità in una città in cui non riesci a prevedere le persone con cui dovrai interagire, dal lavoro, agli uffici pubblici, ai vicini al cinema. Un esempio quotidiano: entri in un bar e non sai chi ti servirà, come pronuncerà quello che ti vuole chiedere, quanto rapidamente vi capirete. Tutta questa vitalità porta però anche a molta volatilità: difficile incontrare due volte la stessa persona come in Italia, in cui il bravo barista sa quello che vuoi, ti saluta riconoscendoti, si accorge se per un po’ di tempo non vai. L’incredibile turn over di persone ti fa sentire in un posto sempre diverso e ti apre la mente, ma non può garantire quel calore umano che richiede un po’ di costanza e che alla fine ti dà la sensazione di appartenere.
Le mie prove sul campo: da Carluccio sotto casa ho incontrato persone bellissime, ma mi hanno chiesto mille volte la stessa cosa, mentre il mio barista di via Crema sa che prendo il cappuccino col cacao.
La cultura dà da mangiare: goleada londinese
Londra è letteralmente invasa di manifesti di spettacoli teatrali, film in uscita, album in lancio, mostre attesissime. E le persone ci vanno. Certo, essere in un’economia sana stimola a spendere di più per il tempo libero, ma non è solo una questione di soldi, bensì di mentalità e organizzazione. Prima di tutto riuscire a partecipare a una qualsiasi manifestazione culturale a Londra è molto più facile che a Milano: tutto è acquistabile online, non ci sono processi di ritiro insensati, non ci sono costi nascosti e inspiegabili, non ci sono spettacoli riservati ai ricchi, agli abbonati, agli amici di. Chiunque abbia mai provato ad acquistare un biglietto per la lirica in Italia, ad esempio, sa quanto possa essere frustrante, costoso e senza alcuna certezza del risultato (dopo ore passate a navigare siti non chiari). I teatri londinesi rinnovano gli ambienti, fanno offerte, creano prezzi per tutti, investono in spettacoli classici, in nuove produzioni, in classici tecnologicamente rivisitati. I cinema sbucano ovunque, anche sui tetti, creano simpaticissime serate a tema, ti permettono di mangiare e bere in sala qualsiasi cosa. I musei inglesi sono dei luoghi aperti in cui la gente si mette per terra a disegnare, in cui si possono scattare foto, in cui si possono addirittura toccare gli oggetti. Il successo della cultura non sta solo nella quantità di soldi che girano, ma anche nella capacità di renderla facile, diffusa ed estremamente varia.
Le mie prove sul campo: i posti in piedi da £5 per i BBC Proms, la frustrazione di prendere i biglietti a La Scala.
È tardi! È tardi! Bisogna correre: Milano segna su calcio piazzato
Ammettere di avere tempo è il più grave peccato della società moderna. Non hai troppo da fare? Sei un perdente. Più grande è la città in cui si vive, maggiore è la retorica della scarsità di tempo. Oggi viviamo una tensione tra il numero potenzialmente infinito di opportunità e cose da fare che la tecnologia ci porta a conoscere e ci rende a finta portata di mano, e il numero per sempre fisso di ore che abbiamo a disposizione: da questo contrasto nasce l’ansia di non avere tempo, che a New York diventa addirittura FOMA. Bisogna così ingegnarsi anche per fare sport. A Londra la gente letteralmente corre al lavoro. Tante persone che praticano il running non vanno a correre, si docciano a casa e vanno a lavorare (o viceversa), ma rendono il tragitto da casa al lavoro il loro percorso sportivo. Questo significa che i runner londinesi corrono con grandi zaini pieni del cambio e delle cose per lavorare e all’inizio danno tutti l’impressione di persone che hanno dovuto abbandonare la propria casa in fretta e furia e stanno fuggendo. Ad aggiungere buffezza alla scena i londinesi hanno anche delle bottigliette d’acqua con manico per bere continuamente: si sa che a Londra l’idratazione è un problema… Correre in mezzo al traffico con lo zaino e una bottiglietta in mano è da pazzi, end of the story: preferisco i frettolosi milanesi che trovano ancora il tempo per passare per casa e si inventano percorsi in striminzite aree verdi.
Le mie prove sul campo: Euston Road con i runner nel traffico in una città di parchi, Parco Ravizza con i runner che fanno mille volte lo stesso piccolo percorso.
Mangiare con le stelle: inaspettato gol inglese (Ndr ricordarsi che nessuno batte New York)
In una grande città in cui il tempo scarseggia, non si può sbagliare nulla e certamente non si vuole sbagliare il ristorante o peggio ancora il piatto che si ordina. A Londra tutto è recensito, stellato e commentato: non si scopre mai veramente un ristorante, si nota che molta gente gli sta dando un buon voto. In una città in cui l’offerta è così varia e i ristoranti aprono, si evolvono o chiudono nell’arco di poco tempo questo proliferare di opinioni è utile e stimolante: l’app del TimeOut è un punto di riferimento, TopTable ti chiede una recensione sui ristoranti che hai prenotato online, Foursquare è pieno di utili tips. Nel complesso tutta questa produzione di contenuti invoglia molto a provare nuovi ristoranti e cucine e contribuisce a tenere una città molto viva. Anche a Milano si mangiano bene piatti molto diversi, ma trovo meno immediato scovare le novità e incuriosirmi. Poi certo la voglia di una vita culinaria stellata crea anche delle inaspettate interazioni nei ristoranti. A Londra, proprio dove le relazioni sociali vengono subite e mai provocate, i camerieri sono stranamente socievoli: “complimenti ottima scelta”, “è il mio piatto preferito”, “avete ordinato le cose migliori”. All’inizio pensavo davvero di essere un asso del menu poi ho capito che è la pressione sociale di fare tutto al meglio, come da recensione, a rendere i camerieri così rassicuranti. Forse non è un caso che l’ultima tendenza dei ristoranti londinesi sia il menu di 4 righe, né fisso né alla carte, semplicemente ridotto all’osso. In un posto senza tempo e pieno di opinioni, datemi solo quello che merita veramente e fatemi vivere la migliore esperienza di tutti.
Le mie prove sul campo: a Londra sceglievo dove andare a mangiare mentre camminavo per strada usando l’iPhone, a Milano tendo ad andare sempre nei miei punti di riferimento.
Il pendolarismo fa l’uomo cattivo: sorprendente pareggio.
Degli Inglesi si dice sempre “signora mia, come fanno bene le file loro. Tutti ordinati e rispettosi e che occhiatacce se ti comporti male”. Certo, nei musei, nei bar, alla fermata dell’autobus. Sottoterra invece The Hunger Games. Ho preso metro in tutto il mondo e davvero mai come a Londra ho notato tutti insieme i grandi tabù del passeggero metropolitano: salgono prima che gli altri siano scesi, non si distribuiscono nello spazio, ma si piazzano in mezzo e oltretutto sono inamovibili, nessuno scende mai per agevolare gli altri. Scene che a Milano ancora sollevano indignazione, occhiatacce, commenti ad alta voce e tweet polemici a Londra sono ormai ignorati ed accettati, segno di imbruttimento diffuso. La verità è che in una città così estesa in cui le persone passano letteralmente la vita sui mezzi pubblici e in cui vige una regola ferrea per cui qualsiasi spostamento richiede almeno 45minuti, si diventa più duri e ognuno è un potenziale nemico. Perché non vince Milano? Perché i trasporti pubblici di Londra sono comunque eccezionali. Servizi che mi hanno commosso: l’applicazione per gli spostamenti in metro (TubeMap), la mail del giovedì dei trasporti di Londra con le informazioni relative al weekend, le fermate dell’autobus con indicata la direzione degli autobus e la mappa delle fermate vicine e di tutti i principali collegamenti. Le mie prove sul campo: le spallate date nelle principali stazioni, gli innumerevoli autobus “on diversion”, su cui però non mi sono mai perso.
Ovviamente il bello delle sfide casuali, soggettive e arbitrarie è che uno poi è libero di ignorare il verdetto o aggiungere altre categorie a caso per truccare il risultato. Certo il dubbio mi rimane.
Ringrazio per le chiacchiere, i commenti, i confronti e le cattiverie: Francesca, Richard, Serenella, Mauro, Sara, Matthew, Fabio, Bianca, Matteo, Adelaide, Carmelo, Silvio, Giorgio, Roberta, Federico, Amanda.
1. Tutte le città cool hanno un clima terribile: sarà anche colpa del periodo che scelgo per andarci, ma per me Berlino è il gelo che ti prende il cervello, passa misteriosamente per le ginocchia (laddove in genere non battono sensazioni) e finisce nei piedi, dove rimane fino al terzo bicchiere di alcool. Ho avuto altrettanto freddo solo attraversando Central Park a gennaio. La cosa però che mi rasserena dei Berlinesi, rispetto ai Newyorkesi, è che almeno si vestono per il clima che hanno, non girano con le gambe nude o i piedi scalzi, e anzi indossano cose punitive o buffe, ma sicuramente caldissime.

2. Si può mangiare (bene) asiatico spendendo poco: di Berlino si dice che sia la più economica delle capitali europee e credo sia vero. Mangiare con poco non significa solo mangiare wurstel (nessuna critica, vedi poi), ma anche cucina asiatica di altissimo livello, vietnamita o thai, e spendere quanto da noi per una pizza e una birra. Ecco, se qualcuno volesse importare a Milano il modello di ristoranti a medio prezzo, con cucina fantasiosa, adatti a persone curiose di piatti del mondo, beh, avrebbe la mia riconoscenza e sarebbe un’altra dimostrazione che Berlino fa tendenza. Il mio stomaco si è invaghito del Transit e del Saigon and More.
3 Si può prendere la metro senza blocchi di accesso: a Berlino non ci sono tornelli che limitano l’ingresso all’intricata rete ferroviaria che attraversa la città e funge da trasporto pubblico. Idealmente chiunque può salire e scendere a piacere, con o senza il biglietto. Non so dire quanti se ne approfittino e quanti siano onesti, certo è che ho sempre visto persone comprare i biglietti (non economici!) alle macchinette. Mi ha fatto bella impressione pensare che la città si fidi di abitanti che non la tradiscono, o che sia abitata da gente affidabile che non necessita di controlli.

4. Il freddo cambia il gusto, saggiamente: io non mangio wurstel e non bevo vino speziato, eppure raramente ho provato una sensazione più piacevole di un bicchiere bollente di Gluwein e soprattutto di un currywurst. C’è una poesia greve, solida e intensa in quel pezzo di maiale, affogato nel pomodoro piccante, con cipolle galleggianti e una spruzzata di curry, che contribuisce al calore del proprio corpo, del locale e del cosmo intero.
5. Le gru sono parte del panorama: Berlino è la città nuova, delle costruzioni, dell’Europa che ha ancora soldi da spendere, del passato da superare, se non lo si può dimenticare. Sembra strano da dire, ma a Berlino si ammirano e si fotografano i lavori stradali, le gru colorate che svettano nel cielo e si muovo in un gioco di incastri, i macchinari strani che scavano la terra e vi infilano dentro marchingegni da vecchi film di fantascienza. Se non fosse per quel maledetto freddo, sarebbe la città ideale in cui vivere la pensione, con le mani dietro la schiena, a contemplare tale operosità pubblica.

6. L’architettura contemporanea può essere simbolica, utile e bella: in una città da ricostruire, si è avuto il coraggio di lasciare esprimere gli artisti contemporanei, primi tra tutti gli architetti. Dal Museo Ebraico a Postdamer Platz sono le strutture contemporanee a raccontare la storia di ieri in maniera diversa e emozionante. Il mio punto preferito della città è la cupola del Reichstag: l’idea di mettere una copertura “trasparente” a proteggere il Parlamento è geniale. Il fatto di potere ammirare la città dall’alto, con comodo e in modo circolare è utilissimo. Le due scale elicoidali che attraversano la struttura sono talmente giuste che non si riesce a immaginare nessun altra soluzione possibile.
Berlino è così, piena di idee che vorresti avere avuto tu.

Il Perù è stato il viaggio delle prime volte. Seguendo una personale predilezione per gli elenchi, lo racconterei così:
- Ho visto nuovi animali: il condor è il cattivo dei racconti di quando siamo bambini, che ci insegnano il bene e il male. In Perù li vedi planare a 4000m, aprire ali enormi e, senza muoverle, scivolare sicuri nel vuoto, sfruttando le correnti. I bambini li salutano e li applaudono. Gli ex bambini cercando di immortalarli mentre passano alle spalle di amanti, amici, parenti. Li abbiamo visti risalendo dal Canyon del Colca, prima del tramonto e all’alba, regali e solitari come solo grandi uccelli necrofagi possono essere.

foto di Mauro Tosca
- Ho camminato per 52km mai al di sotto dei 2000 metri: dicono che il Perù sia il paradiso del trekking e dicono una cosa vera. Alcuni dei posti più incredibili che si possono ammirare sono raggiungibili a piedi. Il Salkantay Trek, che abbiamo fatto sotto la guida di United Mice, è stato una cosa molto faticosa che rifarei domani stesso. Siamo saliti fino a 4600m e da lì siamo andati ancora un po’ più su per vedere una piccola laguna. Abbiamo sentito il suono lontano e pauroso delle valanghe che cadevano dalle cime intorno a noi. Abbiamo dormito in tenda al gelo, coprendoci con tutto quello che avevamo nello zaino, con un cielo stellato così limpido che ti cadeva addosso. Abbiamo visto la Croce del Sud e abbiamo pensato ad altri viaggi, altre scoperte, altri marinai. Abbiamo fatto merenda con wonton, marmellata, burro, pop corn e infuso di coca. Abbiamo attraversato la foresta con colibrì, pappagalli, fiori tropicali e abbiamo bevuto il mais fermentato. Ci siamo spostati da una riva all’altra con carrelli sospesi nel vuoto, tirati a mano. Ci siamo immersi in un’acqua che aveva la stessa temperatura del corpo e abbiamo pensato al paradiso. Abbiamo camminato lungo la ferrovia che porta vicino a Machu Picchu e ci siamo sentiti adolescenti. Abbiamo vissuto, dormito, mangiato secondo il sole e non ci è parso strano

foto di Mauro Tosca
- Ho visto bambini in coda per vedere la TV: in un angolo del mercato di San Pedro c’era un televisore con un cartone di Bugs Bunny e tutti i bambini avevano lasciato le loro bancarelle, i loro giochi di strada, il loro girare e stavano a bocca spalancata davanti a questo focolare domestico in un luogo pubblico. Come loro i bambini di Pisac, attaccati alla vetrina di un negozio di alimentari con una TV in bella vista, a ridere e commentare tutti insieme. E pensare che la TV sarebbe diventata sociale grazie a internet…

foto di Mauro Tosca
- Ho ricevuto richieste di rating su Tripadvisor, anche nei luoghi più sperduti: forse è dovuto al turismo americano così presente in Perù, ma tutti i ristoranti e gli alberghi che dispongono di un buon rating lo mostrano con orgoglio e nessuno si imbarazza a chiedere apertamente una recensione ai clienti. Uno chef di Cusco ci ha raccontato dell’attenzione bellicosa dei ristoratori per questo strumento, che muove clienti alto spendenti. Di proprietari che mettono recensioni negative ai concorrenti, per abbassarne anche solo momentaneamente la media. Della mancanza di controllo che chi abbia lasciato la recensione sia effettivamente stato in quel posto. Dei controlli ossessivi ogni mattina sulla posizione nel ranking. Poi nasce la domanda: si sta affermando un nuovo turismo omologato basato sulla media dei viaggiatori precedenti? E’ la soluzione migliore? Come prima i francesi andavano nei posti consigliati dalla Routard e gli altri in quelli della Lonely, così ora i possessori di smartphone vanno nei primi 20 di Tripadvisor? Ma chi si prenderà la briga di andare nei posti non recensiti? E chi vivrà un’esperienza che gli altri non hanno già fatto?
- Ho parlato con un taxista che era anche una guida turistica e un gourmet: la Lonely dedica tante pagine alla Valle Sacra quanto ai pericoli del Perù. Ammirerete rovine Inka, vi deruberanno e i taxisti vi trufferanno. In realtà noi abbiamo conosciuto persone molto amichevoli, incuriosite dall’Italia (il calcio ha il potere taumaturgico di distogliere dalle domande su Berlusconi) e con una particolare fissa per Venezia (sospetto che da qualche parte una TV con un programma su Venezia ha raccolto attorno a sè molte persone). Capire o non capire lo spagnolo non frena i taxisti dal parlare del loro paese. A Lima abbiamo incontrato al volante di un’auto sgangherata un Tripadvisor portatile e interrogabile a piacere. Ci ha raccontato della nuova ondata di buona cucina e bei ristoranti che sta invadendo il paese. Dello chef Gaston Acurio, amatissimo, popolarissimo, onnipresente. Dei limani, che tutti i weekend mangiano fuori. Della cucina peruviana, che è per sua natura fusion, di quella chifa (innesti cantonesi nelle ricette sudamericane), degli spiedini di cuore venduti per strada, con una donna di colore che indossa il grembiule e inizia a sfamare turisti e cittadini in fila. Di tutti i ristoranti più celebri, con un giudizio su menu, servizio, locale, prezzo. Del Pescados Capitales, davanti a cui ci ha lasciato, benedicendo la nostra scelta, e che è uno dei posti migliori in cui abbia mai mangiato all’estero

foto di Mauro Tosca
- Ho fatto un corso di cucina all’estero: data questa nouvelle vague culinaria peruviana, ci siamo lanciati in una cooking class, ovviamente scelta su Tripadvisor. Una bellissima esperienza culinaria, culturale e umana. Delle ricette di Erick, proprietario del Marcelo Batata, parlerò su Cantarelle, ma la visita al mercato di Wanchaq completamente privo di turisti, dove grasse signore col cappello a cilindro ci hanno fatto assaggiare mille varietà di frutta; la spiegazione dei più gustosi o buffi prodotti della terra peruviana; i bicchieri di pisco che ci siamo scolati durante le ore di corso; l’emozione di cuocere le nostre creazioni nella cucina di un ristorante a pieno regime, sono esperienze che consiglio a tutti, a prescindere dalla voglia di imparare a cucinare

foto di Mauro Tosca
- Ho visto Saturno: a Cusco, che è probabilmente la città più bella e divertente in cui sia mai stato fuori dall’Europa, ci siamo fatti tentare dalle mille possibilità di svago che esistono anche a 3.300m. Abbiamo visitato un buffo planetario, gestito da una giovane coppia, che con mezzi un po’ artigianali e molto brio ci ha spiegato le conoscenze astronomiche degli Inca, il ruolo delle stelle nelle loro vite e ci hanno mostrato l’altra metà del cielo. L’enorme forma dello Scorpione. La “vicinissima” Alfa Centauri. E gli anelli di Saturno, che sono incredibilmente proprio come li disegniamo da bambini
- Ho fatto scelte di turismo responsabile: quando ho potuto, ho contattato organizzazioni e progetti che tutelassero i lavoratori locali e sostenessero progetti umanitari. Ecco perché per il Salkantay Trek ci siamo affidati a Perù Etico, dove Paola, una ragazza italiana, segue progetti per i bambini di strada e le donne che subiscono violenze. Abbiamo pagato una quota associativa di 20dollari a testa e le abbiamo affidato, con grande soddisfazione, l’organizzazione del trekking. La Piccola Locanda, l’hotel in cui hanno sede, è tra l’altro un posto molto piacevole e accogliente. Noi per dormire a Cusco abbiamo scelto il Ninos Hotel, progetto alberghiero di una signora olandese che con i suoi proventi aiuta i bambini di strada garantendo loro un’educazione

foto di Mauro Tosca
- Ho aspettato che i mezzi di trasporto fossero pieni per partire: la prima volta ci è successa con il minivan da Cusco a Pisac. Siamo saliti, l’autista ci ha contati e ha visto che rimanevano 3 posti, o meglio 3 spazi fisici per altre persone. Ha spento l’auto ed è andato in strada a raccattare altri passeggeri. Solo quando il minivan era al completo, siamo partiti, con sottofondo di musica latina offerto dalla “radio diferente para gente inteligente“. La seconda volta, a Colcamayo, è stato uno di quei viaggi che fanno il viaggio. Siamo partiti in 4 con destinatione Hidro. Finalmente un bel viaggio comodo, un pullmino da almeno 10 posti, l’ideale dopo le terme. Poi arriviamo a Santa Teresa e iniziamo a girare cercando qualcosa, facciamo allegramente il giro di una piazza contromano, ci fermiamo davanti a una casa dove l’autista scende e citofona. Risale e finalmente abbiamo una direzione: un altro pullmino, con dentro 2 passeggeri, su cui ci invitano a salire. I due autisti si mettono d’accordo, noi paghiamo il primo (ci possiamo fidare o ci inganneranno? Alla fine la risposta giusta è stata sempre la prima), pronti, via. Per modo di dire. Il secondo pullmino inizia il giro del paese (in realtà i 2 passeggeri ci avvertono che loro sono già lì da mezz’ora…), con un bambino affacciato al finestrino a gridare “Hidro! Hidro!”. Alla fine raccattiamo una varia umanità, ma niente, non siamo ancora pieni. Non ci resta che dedicarci al trasporto merci. Ci fermiamo davanti a un negozio e carichiamo acqua, coca-cola, frutta e confezioni di Inka Cola. Durante uno di questi spostamenti collettivi abbiamo incontrato 4 americani imbufaliti perché il mezzo aveva 45minuti di ritardo e protestavano al grido “people have plans, people have agendas”. Come ogni anno, la mia agenda l’avevo lasciata a casa.
- Ho visto Machu Picchu: sì, è una delle meraviglie del mondo “moderno” e non ho nient’altro da dichiarare

Su Flickr ho pubblicato un set delle foto di viaggio.
Su Google Maps, l’itinerario e informazioni pratiche di viaggio.
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New York è la città che ti sembra di avere già visto la prima volta in cui ci vai e che poi ti sembra sempre diversa ogni volta che ci torni. Questa volta la città mi ha insegnato l’importanza dello stare seduti, del gestire la FOMA, dell’osservare le facce, del fermare gli attimi, del non sottovalutare la quaglia.
Dello stare seduti: NY ti trasmette il senso dello spazio pubblico che è di tutti e di ciascuno e la possibilità di vivere la città, non solo nella città, ma proprio la città. Credo abbiano una tacita legge per cui è proibito costruito qualsiasi cosa senza dare la possibilità alle persone di interpretare il modo di usufruirne. Le file interminabili di panchine a Central Park, i tavolini con la scacchiera a Washington Square, le sedie vista fiume dell’Hudson Park, le strutture di ferro del Chelsea Market e soprattutto l’High Line. Cari cittadini, abbiamo un binario sopraelevato che non ci serve più, che ne facciamo? Si mantengono i binari, si aggiungono sedie, panchine, addirittura sdraio, si allestiscono spazi dedicati all’arte (come l’allestimento dei suoni di tutte le campane di NY), si crea addirittura un belvedere con una grande vetrata affacciata su un pezzo di strada: NY si lascia ammirare distrattamente. Cammini e vedi signori anziani sulla sedia a rotelle che prendono il sole, coppie di uomini che si sdraiano e si guardano un film sul mac, modelli vestiti da teschi che si fanno fotografare, ragazzi che girano un film. Ti inventi qualcosa da fare pur di esserci e stare non per forza con gli altri, ma in mezzo a loro.

Del gestire la FOMA: la mia guida speciale ai segreti della città (di cui si parlerà dopo, nell’atteso paragrafo sulla quaglia) mi ha spiegato che gli abitanti di NY soffrono di FOMA, ovvero the Fear Of Missing Out, che, sempre secondo la mia guida, è una sorta di Ballo di San Vito metropolitano. A dire il vero mi hanno raccontato anche che i newyorkesi sembrano avere tutti il problema dello sperma lento, ma insomma, questa è un’altra storia. La FOMA nasce dall’infinità di esperienze che la città ti offre e dal senso del limite di non potere fare tutto, di perdere così quel pezzo fondamentale che la settimana successiva sarà sulla bocca dei colleghi, nel brusio dei ristoranti, negli approfondimenti delle pagine dei quotidiani. Da qui nasce il dilemma: il weekend è dedicato al riposo o a recuperare tutto quello che non si è fatto in precedenza? Se ti fai la domanda hai già la FOMA. Se non te la fai, non abiti a NY. Ed è subito lunedì.
Poi certo a New York ti trovi, tu che ignori orgogliosamente la moda, a girare stupito e spaventato davanti ai vestiti di Alexander McQueen, a capire che anche uno stilista può essere un’espressione artistica del Romanticismo e a desiderare di essere lasciato e dimenticato in una sala con i vestiti bianchi e rossi dedicati alla scozia e la musica di Handel. E pensi che un po’ di FOMA saresti disposto anche ad averla, ma per favore niente sperma lento.

Dell’osservare le facce (e non solo): quando la notte chiudi gli occhi ti rendi conto di essere stanco non solo per avere camminato chilometri di strade, scale, musei, ma anche per avere fissato tutte le facce delle persone che hai incontrato. Non è solo il fatto che vedi mille individui diversi per colore, look, atteggiamento, ma è il modo apparentemente casuale con cui si associano tra di loro. Mi sono sorpreso ogni giorno a fissare genitori e figli che parevano calzini spaiati, tanto è vero che spesso mi chiedevo se non fossero in realtà frotte di baby sitter di tutte le età. Se guardo i miei amici, mi sembra di potere tirare una linea lungo tutte le cose che hanno in comune; se chiudo gli occhi vedo due donne camminare sulla Broadway e non c’è nessuna linea a me nota. Una è vestita con un tailleur e pantaloni, una ventiquattrore, e potrebbe essere appena uscita da un ufficio finanziario o dallo studio di Patty Hewes; accanto a lei cammina una donna minuta, capelli cortissimi, potrebbe essere lesbica, con zainetto su una spalla sola e vecchie converse; parlano tra di loro, ridono, si fermano a un semaforo e si battono il cinque. Non ho abbastanza fantasia per immaginarmi perché, ma me lo chiedo.

Del fermare gli attimi: ho vagato per NY inseguendo le foto di Sionfullana su Instagram. Ho quasi esultato quando ha caricato una foto di un posto in cui c’ero anch’io. Guardatele, io lo trovo bravissimo: utilizza solo l’iphone e alcune applicazioni per lavorare le immagini. Questo paragrafo è in realtà una scusa per scrivere da qualche parte che mi piace, anche perché ho impiegato mesi per memorizzare il suo nome.
Del non sottovalutare la quaglia: anche questo paragrafo è un po’ una scusa per ringraziare la mia Zagat ambulante e dialogante che mi ha portato in giro per la gastronomia della città. Oltre alla mappa di tutti i luoghi in cui abbiamo mangiato, merita una segnalazione il Fatty Crab. Già il nome ci fa simpatia. Poi è un malesiano fusion e siamo curiosi. Poi ti portano lattine di birra che sembrano succo di maiale e siamo già rapiti. Arriva l’antipasto e sono 4 uova di quaglia aperte e riempite di “cose” in una scala dal dolce al piccante: non c’è un solo sapore che assomigli al precedente e finisci con le lacrime agli occhi di dolore culinario. E non ci lasceremo mai. Di seguito condivido la mappa dei posti di NY in cui sono stato a mangiare. Prima però vi dico una cosa sulla quaglia: succede nella vita di questo uccello che un signore si avvicini per accarezzarlo, facendolo sentire a suo agio e rilassandolo ben bene, e solo allora, quando non c’è nessuna tensione, lo ammazza per evitare che la sua carne si indurisca e il nostro gusto ne risenta.
Tutto sommato è meglio la FOMA.
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